Una pagina che mi ha cambiato la vita: L’infelicità perfetta non esiste – Antonella Polesel

Foto CategoriaUna pagina che ti ha cambiato la vita, mi è stato chiesto. Bella domanda…
Siamo quello che mangiamo, ripeto sempre ai miei studenti. E quante pagine ho mangiato! fin da piccolissima, quando sputacchiavo la pastina sul libro di Cappuccetto Rosso. E poi, bambina, nei miei nascondigli segreti, rintanata con avventure di pirati e cavalieri. E poi più grandicella, a farmi rimproverare dal papà perché leggevo invece che guardare il viaggio dal finestrino. O quando mi svegliavo alle cinque, d’estate, a godermi la frescura e le allodole con i libri di fate. E poi adolescente, a divorare romanzi dell’Ottocento appollaiata sulla conigliera dei nonni, celata dai rami bassi del tiglio. O a viaggiare per la Grecia con il libro delle tragedie. E poi e poi e poi… se siamo quello che mangiamo, ogni pagina mi ha cambiato la vita ed è responsabile di quello che sono.
Ho vissuto molte vite oltre alla mia, ho cercato risposte, ho trovato domande, ho intravisto fari di orientamento e modelli di comportamento.
E allora, per decidere qual è LA pagina che mi ha cambiato la vita, ho cercato nel cuore del problema dei problemi: la possibilità di convivere con la sofferenza umana. E ho voluto rendere un tributo al senso di sollievo che ho provato leggendo le parole di chi più che mai nella sofferenza umana era stato immerso fino alle ossa, eppure ne aveva ricavato una morale semplice: come la felicità perfetta non è realizzabile, così non esiste neanche un’infelicità perfetta. E non perché siamo eroi, ma perché siamo finiti, e niente che sia infinito ci appartiene.
È una morale piccola piccola, che accetta le nostre miserie e la nostra capacità di attaccarci alle piccole cose. È la capacità di sopravvivenza non già dei grandi uomini, ma “di un comune campione di umanità”. È la semplice consapevolezza che possiamo non farci schiacciare dal dolore del mondo, e neanche dal nostro, e che non dobbiamo sentircene in colpa.
È lo stesso sollievo che sento leggendo il Vangelo, il libro degli umili. Quei poveri discepoli che non capiscono niente, i bambini, i peccatori, le donnacce, perfino Pietro rinnegato. Lì i conti non tornano: gli operai dell’ultima ora vengono pagati come quelli della prima, si amano i nemici, si invitano a nozze i barboni. Eppure capisci che va bene così, la vita che ti piace è quella lì, e tu non sei diverso.
Quello che mi ha cambiato la vita è stato qualcosa che ha bilanciato l’effetto schiacciante della mia educazione: nell’ansia da prestazione che mi era stata inculcata, nel senso del dovere, nell’urgenza di fare qualcosa per “salvare il mondo”, queste parole hanno aperto una breccia nella disperazione del “non ce la farò mai” e hanno lasciato la pacatezza del “ce la farò a vivere momento per momento” sostenuta da “questo insensato pazzo residuo di speranza inconfessabile”.
“Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali, che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza.
Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo. Non già la volontà di vivere, né una cosciente rassegnazione: ché pochi sono gli uomini capaci di questo, e noi non eravamo che un comune campione di umanità.

[…]

Strano, in qualche modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda di vivere. Piove, ma non tira vento. Oppure, piove e tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar sera. O ancora, pioggia, vento, e la fame consueta, e allora pensi che se proprio dovessi, se proprio non ti sentissi più in cuore altro che sofferenza e noia, come a volte succede, che pare veramente di giacere sul fondo; ebbene, anche allora noi pensiamo che se vogliamo, in qualunque momento, possiamo pur sempre andare a toccare il reticolato elettrico, o buttarci sotto i treni in manovra, e allora finirebbe di piovere.

[…]

Quando abbiamo visto i primi fiocchi di neve, abbiamo pensato che, se l’anno scorso a quest’epoca ci avessero detto che avremmo visto ancora un inverno in Lager, saremmo andati a toccare il reticolato elettrico; e che anche adesso ci andremmo, se fossimo logici, se non fosse di questo insensato pazzo residuo di speranza inconfessabile.

[…]

Poiché tale è la natura umana, che le pene e i dolori simultaneamente sofferti non si sommano per intero nella nostra sensibilità, ma si nascondono, i minori dietro i maggiori, secondo una legge prospettica definita. Questo è provvidenziale, e ci permette di vivere in campo. Ed è anche questa la ragione per cui così spesso, nella vita libera, se sente dire che l’uomo è incontentabile: mentre,  piuttosto che di una incapacità umana per uno stato di benessere assoluto, si tratta di una sempre insufficiente conoscenza della natura complessa dello stato di infelicità, per cui alle sue cause, che sono molteplici e gerarchicamente disposte, si dà un solo nome, quello della causa maggiore; fino a che questa abbia eventualmente a venir meno, e allora ci si stupisce dolorosamente al vedere che dietro ve n’è un’altra; e in realtà, una serie di altre.

Perciò, non appena il freddo, che per tutto l’inverno ci era parso l’unico nemico, è cessato, noi ci siamo accorti di avere fame: e, ripetendo lo stesso errore, così oggi diciamo: ‘Se non fosse della fame!…’ “

Primo Levi, Se questo è un uomo (passim)

“… io credo che la conoscenza del futuro non ci sia nemmeno utile. Che vita sarebbe stata quella di Priamo, se fin da giovane avesse saputo che cosa gli sarebbe toccato da vecchio? […]  E Cesare? Se mediante la divinazione avesse saputo che in quel senato che per la maggior parte aveva riempito di fedelissimi da lui nominati, nella curia di Pompeo, proprio dinanzi alla statua di Pompeo, sotto gli occhi dei suoi centurioni, sarebbe stato trucidato da eminentissimi cittadini, alcuni dei quali egli stesso aveva colmato di onori d’ogni sorta, e sarebbe rimasto lì sul pavimento, senza che al suo corpo si avvicinasse non solo nessuno dei suoi amici, ma nemmeno dei suoi schiavi, – con quale angoscia avrebbe trascorso tutta la vita? Dunque il non sapere i mali futuri è certamente più utile che il saperli. […] a niente, dunque, sarebbe servita ad essi la divinazione, e per di più avrebbero perduto ogni gioia nella loro vita anteriore alle disgrazie; che cosa, infatti, avrebbe potuto essere motivo di gioia per essi, al pensiero di come sarebbero morti?”

Cicerone, De divinatione (passim)

“E se qualche dio mi concedesse di tornare fanciullo da questa età e di vagire nella culla, rifiuterei decisamente, e non vorrei certo, una volta percorsa quasi tutta la pista, essere ricondotto dal punto di arrivo a quello di partenza.”

Cicerone, De senectute

 Antonella Polesel

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