Che ne sarà dei milioni di persone che campano guidando automobili o camion quando, da qui a un quarto di secolo, le loro professioni saranno sparite a causa del diffondersi di veicoli in grado di guidarsi da soli, sul tipo di quelli che sta sperimentando Google? Così inizia un lungo articolo sugli scenari della disoccupazione tecnologica apparso sull’edizione online del Washington Post che, poco più avanti, si chiede ancora: siamo pronti a vivere in un mondo in cui il 50% della gente non avrà un lavoro?
Il dibattito sugli effetti che le nuove tecnologie, robot, computer e software su tutte, avranno sull’occupazione nei prossimi decenni è divenuto, da qualche settimana, particolarmente vivace sui media americani; nei Paesi europei, al contrario, se ne parla stranamente poco , malgrado le pagine dei giornali siano piene di titoli allarmanti sull’aumento della disoccupazione provocato dalla crisi, come se la tecnica fosse un fattore estrinseco, relativamente poco influente sull’evoluzione del sistema economico.
A determinare questo diverso atteggiamento, probabilmente, contribuisce la maggiore attenzione che la cultura americana dedica da sempre nei confronti della tecnologia, fino a farne un oggetto di culto, unita alla profonda consapevolezza del fatto che l’egemonia economico-militare degli Stati Uniti è in larga misura fondata sulla supremazia tecnologica, e che la possibilità di conservare l’egemonia dipende, a sua volta, dalla capacità di mantenere tale supremazia. Ma, per tornare al nostro articolo, il suo anonimo (si tratta di un testo ripreso dall’agenzia Associated Press) autore delinea tre scenari possibili: 1) dopo la crisi l’economia tornerà a generare posti di lavoro, a prescindere dagli effetti dell’automazione di un numero crescente di mansioni; 2) l’economia tornerà sì a generare occupazione, ma si tratterà perlopiù di mansioni a basso livello di qualificazione; 3) dobbiamo rassegnarci al fatto che le nuove tecnologie sono inevitabilmente destinate a generare fenomeni sempre più gravi di disoccupazione di massa.
Il nodo attorno al quale si attorcigliano, e divergono, i punti di vista di coloro che prospettano questi scenari non è nuovo ed è il seguente: per alcuni, la rivoluzione digitale seguirà dinamiche simili a quelle che hanno caratterizzato precedenti rivoluzioni tecnologiche (vapore, elettricità, ecc), per cui, in un primo tempo, l’automazione generata dai computer distruggerà molte mansioni, soprattutto di tipo esecutivo, ma poi ne genererà altrettante, se non di più, che richiederanno competenze più sofisticate e avanzate; per altri, al contrario, le tecnologie digitali hanno la peculiare caratteristica di aggredire con particolare virulenza proprio le mansioni a più elevato contenuto di conoscenze e competenze professionali, e ciò sta avvenendo a un ritmo talmente rapido da non consentire margini di recupero, anche e soprattutto perché questo processo si intreccia con le altre cause economiche che mettono in sofferenza il mercato del lavoro (come i processi di finanziarizzazione e deindustrializzazione dell’economia).
Notiamo, per inciso, che lo scenario intermedio appare più lontano dalle tesi degli ottimisti e più vicino a quelle dei pessimisti delle quali rappresenta, di fatto, una variante, nella misura in cui ne accetta la diagnosi di fondo, limitandosi ad aggiungere che chi verrà espulso dalle mansioni tecnico-impiegatizie troverà qualche possibilità di impiego esclusivamente nei settori del terziario arretrato, meno esposti ai processi di automatizzazione del lavoro (il che è quanto sta effettivamente avvenendo negli ultimi anni negli Stati Uniti, con gli “esodati” della New Economy che finiscono nei gironi infernali dei Wal Mart e dei Mc Donald).
Segnaliamo infine che molti degli economisti citati nel pezzo, fra i quali Joseph Stiglitz, fanno notare come, per verificare quale delle tesi si rivelerà più corretta, sarà necessario aspettare svariati anni, se non decenni, in quanto si tratta di tendenze valutabili solo sul medio-lungo periodo. Personalmente, occupandomi da tempo degli effetti della rivoluzione digitale sui sistemi economici, sociali e politici, mi trovo decisamente più d’accordo con i pessimisti che con gli ottimisti (i quali non tengono minimamente conto delle radicali differenze fra le nuove tecnologie e quelle che hanno provocato le precedenti rivoluzioni industriali).
Al tempo stesso, tuttavia, mi pare che il problema non possa essere discusso a prescindere da altre variabili socioeconomiche e, in particolare, dai seguenti interrogativi: 1) come si trasformeranno i rapporti di forza fra le classi sociali nei prossimi anni: continuerà inesorabilmente l’avanzata della controrivoluzione liberal liberista, oppure assisteremo a una controffensiva da parte del proletariato globale? 2) Fino a che punto il capitalismo può tollerare l’annientamento della forza lavoro senza scavarsi la fossa con le proprie mani, visto che i lavoratori sono anche i primi acquirenti dei prodotti e dei servizi da cui il capitale trae i propri profitti?
Parto dal secondo interrogativo. Si continua a parlare, da destra ma anche da sinistra (vedi le teorie della decrescita e alcune tesi post operaiste), di “fine del lavoro”, ma resta il fatto che l’unica fonte di valore economico resta, innegabilmente, il lavoro erogato, in varie forme, dalle classi subalterne. Grazie a un elevato livello di automazione (che potrebbe spingersi, nel caso delle stampanti 3D, fino alla fabbrica senza operai), una singola impresa può acquisire enormi vantaggi competitivi nei confronti della concorrenza, ma tali vantaggi continuerebbero a essere misurati rispetto al tasso medio di profitto dell’intero settore e, più in generale, dell’intero sistema economico globale. E per sua fortuna, potremmo aggiungere, visto che, in assenza di lavoratori/consumatori, i prodotti magicamente sfornati dalle suddette stampanti 3D non li comprerebbe nessuno.
Ecco perché, a picchi di automazione elevatissimi, corrisponde oggi il lavoro manuale di centinaia di milioni di operai ridotti in condizioni di semischiavitù (se oggi Marx fosse vivo, direbbe che l’estrazione di plusvalore relativo ed assoluto sono forme complementari piuttosto che tappe diverse di un processo storico).
Per farla breve: non si tratta solo di vedere come evolverà l’economia nel corso tempo ma anche di capire come interagiranno fra loro i diversi processi in atto in diverse regioni del mondo. Il che ci porta al primo interrogativo, quello sui rapporti di forza: come peserà il risveglio delle nuove classi operaie cinesi, africane e latino americane sui rapporti di forza fra lavoro e capitale in Europa e negli Stati Uniti? I partiti e le organizzazioni sindacali occidentali continueranno a tenersi sulla difensiva, arretrando di fronte all’uso capitalistico della crisi e dell’automazione per costringere i lavoratori ad accettare redditi e condizioni di vita sempre peggiori sotto il ricatto della disoccupazione? Oppure nasceranno forze e movimenti in grado di passare all’offensiva? Il Washington Post si chiede se potremo vivere in un mondo in cui il 50% delle gente non avrà un lavoro, e se la risposta fosse lavorando tutti lavorando meno (per esempio tre giorni alla settimana a parità di salario)?
Carlo Formenti, da cercareancora.it (28 gennaio 2013)