Tondo su Tree of life

Ci sono dei film nei quali lo spettatore non entra in risonanza con le immagini che avanzano sullo schermo. La pellicola è perfetta – nelle inquadrature, nella composizione del quadro, nella fotografia, nel montaggio, nell’impiego della musica –, ma c’è qualcosa nella storia e nel suo modo di essere narrata, cioè mostrata, che impedisce la sintonia, che ostacola il flusso che tiene incollato lo sguardo allo schermo. La “responsabilità” non è del film, ma di chi guarda. Invece di essere risucchiati dentro le immagini, si rimane distaccati e mancano perfino le parole per dire ciò che, con ogni probabilità, dovrebbe appartenere alla sfera dell’indicibile.

È questa l’esperienza che si prova durante la proiezione di The Tree of  Life di Terrence Malick, recente Palma d’Oro al Festival di Cannes. Non c’è dubbio, il film è perfetto: la contraddizione tra la Grazia, incarnata dalla madre, e la Natura, rappresentata dal padre, che si riverbera sui figli è una buona idea narrativa; la recitazione è così espressiva e allo stesso tempo naturale che non ha quasi bisogno di parole, bastano i gesti e la cartografia dei volti; il “rimuginare” delle voci fuori campo cuce immagini talvolta divergenti e che sfuggono al procedere della storia; la manipolazione della temporalità – fino all’incontro, nella stessa inquadratura, del sé adulto con il sé bambino – mostra l’intreccio tra il tempo presente e il tempo della memoria; e poi, ci sono, a dare il tono al film e a definirne la sua originalità, molti minuti di sequenze decisamente non narrative: una via intermedia tra la video-arte da un lato e delle sofisticatissime immagini “geografiche” dall’altro, come a inserire i dolori, le tragedie e i conflitti di una famiglia americana del Midwest negli anni Cinquanta in una vicenda cosmica, dove la natura, la sua durezza e la sua bellezza formale hanno la meglio (forse) sulla grazia. Insomma, un’opera ambiziosa che nella sua “visionarietà” iconica ricorda, per certi versi, le sequenze più lisergiche e mistiche di 2001: odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Un’opera-cosmo dove la parte (i mariti, le mogli, i figli e le tese relazioni familiari, in un contesto dato) deve essere letta e interpretata dentro la cornice del tutto (la storia naturale, biologica e culturale del cosmo, dalle origini all’oggi, ma anche verso un oltre che rinvia al divino, all’indicibile: che, però, secondo Malick, rimane rappresentabile, anche se in modo laterale, attraverso la forza degli elementi). Malick: un Darwin-mistico, un evoluzionista panteista, che cerca con il proprio cinema di definire la posizione dell’esserci nella “grande catena dell’Essere”.

Non è troppo? Forse sì, ed è questo il motivo di tanta estraneità (dello spettatore). Voler afferrare il Segreto, dire la parola definitiva sul senso dell’Esistenza, voler raccontare il Destino e l’Eterno, alludere al Disegno Intelligente rimanda a un’idea di cinema che mima la filosofia, ma che in realtà produce una selva di simboli vuoti, il cui contenuto significante si riduce a una massima, a un aforisma. Cioè, a poco: che nulla aggiunge a ciò che sappiamo; che seduce e ci distoglie dal qui e ora; in cui tutto è solo nella superficie – troppo glamour – delle immagini.

Non può il cinema forzare il proprio linguaggio, estendere il campo del visibile e del rappresentabile, inglobare il non narrativo, senza scivolare lungo la china dell’ineffabile? Non può essere un esercizio del pensiero dentro le storie?

[…]

Meglio tacere (e chiudere gli occhi), meglio uno schermo nero. Meglio “il caso e la necessità”. Per me.

Claudio Tondo

Un pensiero su “Tondo su Tree of life

  1. Anch’io sono lontano da questo modo di concepire il cinema, però quelle immagini sull’universo e sulla creazione forse hanno il potere di rinnovare il cinema: servendosi di un montaggio emotivo, cercano di rappresentare l’oscillazione tra memoria e realtà (v. Proust) scatenata dal racconto di una tragedia familiare, frutto di molte altre piccole tragedie, fatte di solitudini, esplosioni, fraintendimenti.
    La scelta di inserire la storia di quella famiglia nella vicenda cosmica (suggestiva la scena dei due dinosauri lungo il tratto del fiume che ha visto giocare i tre fratelli nel secondo dopoguerra) può non essere vuoto simbolismo solo se abbiamo “fede” in un ordine che non si esaurisce nella realtà. Io non riesco a fare quel passo, ma ho rispetto per chi sa spingersi oltre la soglia, superando anche le contraddizioni. Tanto più che se nello scontro tra Grazia e Natura, l’una è la madre e l’altro il padre, la Natura in qualche modo è già una premessa malata.

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