Le verifiche (da correggere e che si accumulano) mi attendono, perciò “vado veloce”, senza badare troppo allo stile.
So, perché me ne ha parlato, che Marco Durigon è rimasto deluso dal film, che ha trovato banale, soprattutto in certe soluzioni horror che lo hanno infastidito. Al contrario, a me è sembrato, almeno ad una prima visione e nonostante alcune ingenuità visive, una pellicola importante, sia cinematograficamente, sia nei contenuti. Perché, allora, bisogna andare a vedere Il cigno nero? Perché è un film sul corpo e sulle sue trasformazioni. Perché la purezza di un’arte come la danza richiede che l’artista (e tutti noi) non solo disciplini, fino all’autodistruzione, il proprio corpo; ma, allo stesso tempo, non dimentichi la natura “animale” del corpo stesso, di ogni corpo. Un corpo, cioè, che deve farsi letteralmente cigno. Non solo: deve essere allo stesso tempo cigno bianco e cigno nero. E per ottenere ciò artisticamente, è necessario “fare i conti” con la propria esistenza e con i propri fantasmi. I fantasmi, ad esempio, di un’educazione materna incombente, centrata sul ricatto e sui sensi di colpa e di una sessualità repressa. Insomma, per rappresentare con i movimenti della danza l’ambivalenza del Lago dei cigni di Tchaikovsky, bisogna lavorare su sé stessi in un modo solo apparentemente contraddittorio: disciplinare il corpo nell’arte e liberarlo nella vita. Solo accettando la propria animalità – diventando altro da sé, in un “corpo a corpo” con un alter ego reale e immaginario, rappresentato nel film da Lily (Mila Kunis) – Nina (Natalie Portman) potrà raggiungere la perfezione e sanare quella scissione profonda, quella ferita, tra l’essere e il danzare che la definisce in ogni fibra della sua carne. Non senza rischi naturalmente: perché la morte può essere il traguardo, o l’esito finale, o l’apoteosi artistica.
Il cigno nero prosegue la riflessione sul corpo che è una costante del cinema di Aronofsky. Per questo, andrebbe visto e messo in relazione con la sua opera precedente: la purezza sublimata della danza e della giovinezza non può essere compresa senza aver prima visto come i corpi invecchino, come decadano e ci abbandonino, come sia il rapporto con il corpo di un ex-lottatore – Randy “The Ram” Robinson (Mickey Rourke) – protagonista di The Wrestler (2008). Ci sono in Aronofsky tracce profonde che conducono ad un altro cineasta, ossessionato dalla carne e dalle sue patologie: a David Cronenberg, a Videodrome (1983), a Crash (1996), a eXistenZ (1999), alle metamorfosi, provocate dalle menti, dai virus, dalle immagini e dalle tecnologie. Il confine della pelle sempre e necessariamente violato.
Ma c’è dell’altro, naturalmente, nel film. Ad esempio, una scena apparentemente marginale che però spiega, mostrando, – grazie alla forza dell’immagine, più che a quella delle parole – l’intreccio perverso tra una mente, un corpo e una relazione. Una torta “eccessiva”, perfino nel colore, per festeggiare il ruolo ottenuto; la madre che invita con insistenza la figlia a mangiarne una fetta; la figlia che rifiuta; la madre che allora vuole gettare l’intera torta nella pattumiera; la figlia che alla fine cede e ne prende una fetta; la “vittoria” della madre. Pochi secondi, in sequenza, che danno l’esatta percezione del rapporto “malato e ricattatorio” (un doppio vincolo, direbbero gli psicologi) di una madre e di una figlia; ma anche, forse, l’origine dell’anoressia. Ed è proprio da questo intreccio che è necessario districarsi se si vuole essere anche “cigno nero”, ma soprattutto e semplicemente se si vuole “dire sì alla vita”, prestando ascolto al proprio desiderio.
C’è infine un lavoro sulla forma che non può essere tralasciato, perché i film (come ogni opera d’arte) sono la loro forma. Un montaggio che genera nello spettatore una tensione crescente e lo fa aderire alla narrazione audio-visiva. Una sequenza, quella della discoteca, che è uno shock e un contraltare (nel montaggio, nelle inquadrature, nell’immagine e nel suono) alla palestra delle danzatrici classiche. E infine, una scelta di fotografia che stride con le nostre attese (e con il manifesto pubblicitario): la purezza della danza, la sua “spiritualità immateriale”, resa da un’immagine sgranata e “sporca” del tutto inaspettata per un film del genere. Un’immagine che ci riporta a ciò che la purezza nasconde: alla materia, ad un corpo lacerato da tensioni profonde… Uno stridore, comunque, esteticamente produttivo.
Claudio Tondo