The tree of life – Recensione

“Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta del mondo?”, chiede Dio Onnipotente a Giobbe. Malick apre la sua opera con questa citazione biblica, profonda e sconvolgente, e pone noi spettatori, noi uomini, di fronte ad un interrogativo diretto da parte del Cielo. Con “L’albero della vita” il regista interroga a sua volta il Cielo, tanto sereno e luminoso quanto silenzioso ed indifferente; lo interroga sul valore dell’esistenza dell’uomo ed usa come punto di domanda il simbolo dell’albero: “Gli alberi sono lo sforzo infinito della Terra per parlare al Cielo in ascolto.”, scrisse il poeta indiano Tagore. Il film è una ricerca, è l’iter di un’anima nella memoria: Jack, il protagonista, ci viene presentato come un uomo malinconico fra inquadrature vertiginose di grattacieli cristallini. I suoi ricordi ci narrano la sua storia: il maggiore di tre fratelli, Jack cresce in una modesta famiglia del Midwest, tra la grazia ingenua della madre e l’autorità energica del padre; diventa un giovane inquieto ed oscuro. La sua vita è lacerata dalla perdita precoce di uno dei due fratelli, morto a diciannove anni. Tale evento costituisce il centro della riflessione del film: “Questa la sorte dell’umane genti?”, “Arcano è tutto,/fuor che il nostro dolor.” Dove sei dunque tu, Dio, mentre la sofferenza penetra l’umanità? Dov’eri tu quando un giovane moriva? Riflettendo sul significato del dolore e della morte, Malick ci propone una formidabile esperienza visiva e sonora, un viaggio che nei suoi caratteri di infinità e visionarietà ricorda 2001: Odissea nello spazio di Kubrick: sui toni acuti ed intensi del Lacrimosa di Preisner i nostri occhi ondeggiano attoniti tra le profondità infinite dell’universo e l’infinita piccolezza del corpo umano, tra la potenza violenta della natura e la fragilità estrema di un feto all’interno del ventre materno; il nostro cuore si turba nell’accostare la vertigine cosmica con la meraviglia della nascita della vita. L’uomo, che Sant’Agostino, riferendosi a Dio, descrive come “aliqua portio creaturae tuae […] circumferens mortalitatem suam”, piccola porzione della creatura divina che si porta dietro la propria mortalità, qui s’interroga lucidamente sul proprio ruolo nel cosmo, concettualizza il sentimento del dolore, serba la durata del tempo nella memoria. Jack, ormai adulto e membro di una realtà impersonale e scientifica, cerca angosciosamente di condensare il ricordo del fratello morto: errando “solo et pensoso” per “i più deserti campi” della propria anima giunge ad un varco, supera questa porta senza pareti e si vede bambino, vede la madre, giovane, carezzata dal vento. Ascende ad una spiaggia, lambita dalle acque dell’eternità, dove può finalmente toccare il fratello. Tutta l’umanità cammina su questa spiaggia con la coralità delle anime del Paradiso di Dante. Da una ricerca, nonché meta, spirituale e metafisica Jack prende così coscienza della bellezza dell’esistenza e scorge Dio nella dolcezza immensa della grazia materna, nella sacralità della voce della natura, nella fiamma di una candela accesa dal proprio amore per il fratello.

Giulia Marta Vallar, vincitrice del concorso Scrivere di cinema

Un pensiero su “The tree of life – Recensione

  1. Più di dieci anni fa, nel 1998, Malick regalò al cinema “La sottile linea rossa”, film nel quale emerge un tema classico del pensiero dell’uomo, ovvero la distruzione della propria madre: la natura. Possiamo riassumere questo pensiero in quella scena del film dove viene inquadrato un passerotto morente, vittima della guerra umana. E’ questo infatti l’intento del regista, mostrare come l’azione degli esseri umani, specialmente nella guerra, porti all’annientamento del Mondo. Uomo e Natura: è questo il binomio preferito di Malick, è questa la terribile antitesi che egli vuole mostrare al pubblico. Cosa c’entra tutto questo con “The tree of life” ? In più di dieci anni accade qualcosa nel messaggio del regista. E cosa accade? Il sospetto che quel contrasto dell’uomo con la natura possa trovare un punto d’intesa, ovvero la Grazia. Non che il messaggio del film sia poi tanto lontano dalla guerra assassina dell’uomo, dalla volontà di sopraffazione umana che spazza via la linfa della vita, calcata ne “La sottile linea rossa”. Non a caso dopo la metà del film, il piccolo Jack comincia a nutrire l’odio verso il padre, metafora di una natura che ama e annienta allo stesso tempo le sue creature, un odio che non può che desiderare la morte dell’uomo di casa. Anzi, è come se qui Malick desiderasse far vedere come il rapporto che si crea tra uomo e natura sia turbato, malato, ambivalente tra il rispetto e il desiderio di morte reciproci, un rapporto che tende al sadismo, ben suggerito dal piacere temporaneo che Jack prova nell’infierire dei torti fisici al fratellino.
    E tuttavia il regista vuole dirci qualcosa in più rispetto al suo vecchio film del 1998: se è vero che Uomo e Natura sono in contrasto, se è vero che tale rapporto è un continuo scambio di morte e rispetto, è altrettanto vero che gli umani possono partorire qualcosa che li riappacifichi con la loro esistenza e con la loro Madre: la Grazia. Quel sentimento di empatia col Mondo, quell’affetto malinconico verso la nostra Terra, schiudono all’uomo il senso nascosto dell’esistenza. E c’è di più: la Grazia attenua l’opposizione tra Uomo e Natura (così ben evidenziata ne “La sottile linea rossa”) e riesce a formare un’intesa.
    Insomma nell’esplosione di immagini che Malick ci offre, si insinua il messaggio che tutti noi siamo davvero in opposizione alla Natura (o forse è solo una nostra illusione), ma che in fondo è proprio questo infinito scenario del Mondo ad averci creato e per poterne render ragione dobbiamo vivere in noi la Grazia, quel sentimento di affetto verso l’Altro, che ci riappacifica con esso, ci riunisce ad esso e apre il nostro cammino alla sua Verità.

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