“Il latino è inutile…”

LatinoVorrei condividere queste righe di Seneca, tratte dalla Consolatio ad Marciam, che ho appena letto dal libro di letteratura latina. Seneca consola una donna che non si rassegna alla morte del figlio e vuole muovere una riflessione sul tema del suicidio e della morte.
Trovo la saggezza di Seneca rassicurante. Soprattutto quando tratta di temi così importanti che la loro mole sovrasta totalmente una diciottenne come me, che ancora non sa niente della vita. Ma proprio per la difficoltà di certi argomenti, trovo utile leggere ciò che ne pensano i grandi filosofi, che su di essi hanno meditato a lungo.
Pubblico questo brano perché, giunta ormai all’ultimo anno, mi sono resa conto che una parte enorme di ciò che ho studiato negli scorsi l’ho rimossa e trovo ciò immensamente triste. In molte opere camuffate da libri di scuola c’è una straordinaria bellezza e una straordinaria utilità che spessissimo ignoriamo.

“Che cosa, dunque, ti addolora, Marcia? Il fatto che tuo figlio è morto o il fatto che non è vissuto a lungo? Se è il fatto che è morto: allora avresti dovuto piangere sempre, perché hai sempre saputo che doveva morire.
Pensa che il morto non prova alcun male, che sono solo leggende quelle che ci rendono terribile l’aldilà; nessuna tenebra circonda i morti, nessun carcere, nessun fiume di fuoco, nessun fiume Lete, e non ci sono tribunali, e accusati, e tiranni in quella libertà così completa: sono i poeti che hanno inventato tutto questo e ci hanno spaventato con paure senza senso.
La morte è la liberazione da tutti i dolori, il termine oltre il quale i nostri mali non possono andare; essa ci riporta alla tranquillità, in cui eravamo prima di nascere. Se si ha compassione dei morti, si deve avere compassione anche di chi non è nato.
La morte non è né un bene né un male. Infatti può essere bene o male solo ciò che non è qualcosa: ma ciò che non è nulla in sé, e tutto riduce al nulla, non può procurarci nessuna conseguenza: i mali e i beni operano su una materia. […]
Una pace grande e eterna lo ha accolto [suo figlio]. Non è più tormentato dal timore della povertà, dalla preoccupazione della ricchezza, dagli stimoli della passione che, col piacere, rovina l’animo; non è più tocco dall’invidia per la fortuna altrui, […] Non vede catastrofi pubbliche o rovine private. Non è più preoccupato dal futuro, legato a un risultato che promette cose sempre più incerte. Infine è una posizione, da cui nulla può scacciarlo e dove nulla lo può spaventare. […] La morte scioglie dalla schiavitù anche contro il volere del padrone; essa allenta le catene dei prigionieri, fa uscire dal carcere chi ne era impedito da un potere tirannico, […].”

Ci tengo a precisare che il mio non è un invito al suicidio. Ho pensato che questo brano potesse essere utile a coloro che hanno subito una grave perdita e non riescono a farsene una ragione, perché  il loro pensiero fisso è un aldilà che non ci è possibile conoscere. D’altronde, l’intento principale di Seneca era di invitare Marcia a reagire con forza d’animo ad un lutto familiare, proponendole una visione dei fatti che non la facesse soffrire e le permettesse di continuare a vivere serenamente il resto dei suoi giorni.

Claudia Vanelli

Il corsivo ultima frontiera della scuola?

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Alcuni anni fa la casa editrice Einaudi ebbe l’intuizione di utilizzare come slogan promozionale una splendida frase tratta dalle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar: «Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire». In questi tempi di crisi il senso di tale massima dovrebbe essere esteso anche alla Scuola italiana. Che invece, da almeno due decenni, sembra la metafora della volontà di (auto)annientamento della cultura e, sovente, del buon senso. Non vi è pseudo-teoria o assioma pedagogico che non siano stati riferiti al grande pubblico come nuova frontiera della modernità. L’ultima novità è apparsa sul “Corriere della Sera” on-line: un dossier dall’eloquente titolo Ha ancora senso imparare il corsivo? in cui si riferisce il serissimo dibattito sorto negli Stati Uniti circa l’utilità dell’insegnamento del corsivo ai bambini delle scuole elementari. In un’epoca dominata dall’uso delle tastiere, argomentano alcuni, perché perder tempo ad apprendere il corsivo, così noioso e difficile? Basta imparare a scrivere in stampatello e poi via con la tastiera! La questione poi è diventata politica, dal momento che, per i suoi avversari, il corsivo è “di destra”. Il motivo di questa o altra coloritura politica sfugge a chi scrive, come a chiunque non si sia appassionato a dibattiti di portata fondamentale sul genere “Tex Willer è di destra o di sinistra?”.
Nel dossier del “Corriere” un pediatra sostiene a spada tratta l’abbandono del corsivo, un oggetto antiquato, e l’uso del solo stampatello, affermando: «Se il corsivo ormai non esiste sui libri che leggiamo, né sul computer, né su Internet, né sugli smartphone, né sui social network, perché usarlo a scuola?».
Viceversa gli esperti di psico-pedagogia interpellati rilevano l’importanza dell’apprendimento del corsivo nello sviluppo psicologico e cognitivo dei bambini e segnatamente «quanto sia cruciale nella crescita, nel rapporto occhio-mano, nella sequenzialità delle parole che si riflette in sequenzialità del pensiero, nell’originalità del tratto e nelle competenze di analisi e sintesi in rapida sequenza. […] Ha una valenza profonda nell’acquisizione di competenze basilari di ordine cognitivo e psicomotorio e di abilità manuali e di pensiero».
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