Le Voci del Corpo / 5 – Roberto Cescon e Marco Durigon il 12 marzo alle 17.30 in Biblioteca Civica

Biblioteca PordenoneBiblioteca Civica di Pordenone – Sala “Teresina Degan”, 12 marzo 2014 – h. 17:30

Roberto Cescon – Il corpo nella poesia del Novecento

Ciascuno è il suo corpo e ha il suo corpo con cui può andare al cuore delle cose e fare esperienza del limite. Ogni epoca ha la sua immagine del corpo, così come una lingua per rappresentarlo.
Nel Novecento, a una maggiore disgregazione dell’identità percepita dal poeta corrisponde una maggiore attenzione al corpo deformato, sezionato o ibridato.
Il trauma della Grande Guerra e la crisi dei fondamenti determinano la pietrificazione del corpo nei versicoli de Il Porto Sepolto e la teatralizzazione del poeta saltimbanco, che mette a nudo in Aldo Palazzeschi la mercificazione borghese del sentire. Per Andrea Zanzotto il corpo esiste nel testo ogni volta in cui si ha un atto di lingua, intesa come denso magma di significanti, dove si dissolvono l’identità e il paesaggio. L’esattezza inflessibile della scrittura di Valerio Magrelli pone il problema della percezione, intesa come atto biologico, di cui la scrittura è metafora: la mano-penna è una protesi che permette al poeta di riconoscersi, l’occhio miope media tra il mondo-cervello e l’ambiente esterno.

Marco Durigon – Il culto del corpo nell’antica Roma

É a partire dal II secolo a. C. che a Roma si può parlare di culto del corpo, da quando cioè la città estende il suo potere su tutto il Mediterraneo e subisce gli influssi culturali provenienti dalla Grecia. Il cultus prevede che ci si lavi, ci si mantenga in forma, che l’uomo si tagli barba e capelli, che la donna si trucchi, si profumi; ma soprattutto prevede che entrambi si vestano adeguatamente per nascondere il più possibile il loro corpo (la parte naturale del corpo) alla vista degli altri. Acconciatura e abbigliamento devono evidenziare lo status sociale del cittadino romano, devono consentire a chiunque di distinguere a prima vista fra ricchi e poveri, liberi e schiavi, servi e potenti.
Le fonti letterarie ci tramandano una impressionante lista di prodotti utilizzati dalle donne (ma anche dagli uomini) per la cura del corpo, in particolare per le poche parti del corpo che il decus consente di esporre alla vista di tutti. Le testimonianze archeologiche ci offrono grandiosi esempi di edifici termali pubblici, una delle più grandi invenzioni della Roma di età imperiale, che pose l’igiene ai primi posti nelle attività giornaliere, e soprattutto che fece delle cure del corpo un piacere gradito e accessibile a tutti.
Accanto ai corpi in carne e ossa, il cittadino romano che passeggiava per le strade della città si imbatteva quotidianamente in una folla silenziosa di corpi di marmo o di bronzo che popolavano in grande quantità tutti i luoghi pubblici e privati. Le statue rappresentavano un ulteriore riconoscimento dello status sociale del cittadino, propagandavano messaggi politici e valori e forse, se collocate all’interno degli edifici termali, rappresentavano un modello a cui ispirarsi nella cura e nell’allenamento del corpo. A partire dall’età augustea le statue servirono soprattutto a tramandare l’immagine dell’imperatore, a rappresentarlo sempre più simile, nella sua grandezza e nella sua bellezza, alle statue delle divinità, a evidenziare la doppia natura, fisica e simbolica, del suo corpo: un corpo naturale, e quindi mortale da una parte, ma dall’altra anche un corpo politico, metafora di un potere senza limiti e senza fine.

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Cosa leggono i prof – Marco Durigon

Mentre leggo il nuovo romanzo di Dacia Maraini, penso a un cimitero che ho visitato una quindicina di anni fa in Norvegia. Ci sono entrato per caso, mentre cercavo di raggiungere la cittadina di Alesund, sulla costa occidentale. Visito spesso i cimiteri quando sono in vacanza o alla scoperta di una nuova città; a volte parlo di questa consuetudine con i miei studenti, e loro si meravigliano, mi prendono in giro, temono che la gita a cui li dovrò accompagnare si trasformi in un triste repertorio di monumenti funebri.
Il cimitero è uno dei luoghi più inverosimili che l’uomo abbia mai inventato, ma è anche il luogo che forse più di ogni altro rivela il grado di civiltà dell’uomo. Visitare un cimitero significa conoscere il rapporto che un popolo intrattiene con i propri cari, conoscere come quel popolo si rapporta con la morte e quindi, in fondo, con il senso della vita.
Ciò che mi colpì, visitando questo piccolo cimitero sperduto nella campagna norvegese, fu la presenza, al suo ingresso, di alcune attrezzature per i giochi dei bambini. In Italia sarebbe impensabile: bimbi che corrono, che urlano, che inseguono una palla calpestando l’erba curatissima che circonda le lapidi. Ma soprattutto bimbi così a diretto contatto con i morti.
Che cos’è un cimitero? Molti di noi risponderebbero che è un luogo silenzioso, triste, dove ci si reca contriti per omaggiare i defunti. Eppure non sempre è stato ed è così. Alcuni documenti di età medievale e moderna ci descrivono i cimiteri come un luogo pubblico simile a un mercato o a una piazza, con tanto di botteghe e merci di ogni tipo; ci raccontano che spesso al cimitero ci si incontrava per danzare e per giocare, tanto che alcune leggi dovettero proibire l’ingresso a musicanti, mimi e giocolieri.
C’è un altro cimitero che da un po’ di tempo vorrei visitare in Scandinavia: è quello di Stoccolma. Sorge all’interno di un grande bosco, le lapidi si trovano ai piedi di enormi alberi di conifere, ai bordi di laghetti colorati di ninfee, su prati verdissimi, punteggiati di fiori. Insomma un luogo perfetto per una passeggiata romantica con la fidanzata, più che l’immagine di un camposanto. Ho citato la Scandinavia ma potrei citare i verdi cimiteri inglesi, oppure le bellissime croci celtiche che si incontrano sperdute nei paesaggi irlandesi, a segnalare la presenza di qualche morto a cui è stato concesso di riposare in luoghi stupendi, sospesi tra il verde delle brughiere e il blu intenso dell’oceano. Potrei ancora parlare di alcuni cimiteri americani o giapponesi: luoghi accoglienti, che invitano alla meditazione, al raccoglimento, a godere del silenzio e della pace.
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Il Postmoderno fra cinema e letteratura – Marco Durigon

Domani mercoledì 21 marzo 2012 alle ore 18.00, presso la Sala “Teresina Degan” della Biblioteca Civica di Pordenone, ci sarà il quinto appuntamento con le Conversazioni sul Postmoderno. Letture critiche del nostro tempo organizzato in collaborazione tra Biblioteca Civica, Liceo Leopardi-Majorana e Società Filosofica Italiana Sezione Friuli Venezia Giulia. Interverrà il prof. Marco Durigon sul Postmoderno fra cinema e letteratura.

I

Il dibattito sul postmoderno nel cinema è ancora in una fase interlocutoria e, nonostante la pluralità di voci e interventi che si sono succeduti negli ultimi anni, non ha portato a una definizione precisa e a una visione globale. D’altronde racchiudere la questione entro confini ben delimitati sarebbe come negare l’idea stessa di complessità che è insita nel concetto di postmodernità.

Laurent Jullier, docente di estetica del cinema presso l’Università Sorbonne di Parigi, indica in Guerre stellari di G.Lucas (1977) l’atto di nascita del cinema postmoderno: grazie anche all’introduzione del sistema Dolby, esso avrebbe inaugurato il film-concerto, ovvero un cinema caratterizzato dalla presenza decisiva della musica (rispetto alla quale l’immagine stessa assume un ruolo secondario) e da figure stilistiche come il carrello in avanti, l’effetto clip, il 3D, capaci di provocare nello spettatore un “bagno di sensazioni, l’impressione di galleggiare al centro di un magma i cui suoni toccano direttamente, come l’acqua del bagno, il suo corpo intero”. E’ un cinema che necessita di proiezioni ad altissimo livello tecnico (schermo di grandi dimensioni e in grado di garantire un’immagine ben definita, acustica perfetta), in cui contano gli effetti speciali, i “fuochi d’artificio”; è un cinema che si fa evento, che seduce “lo spettatore alla ricerca di emozioni forti per contrastare la mancanza di emozioni”. Infine è un cinema che non rinuncia alla voglia di raccontare, ma lo fa differenziandosi dagli schemi del racconto classico, per assumere carattere di debolezza, leggerezza e frammentarietà (dal testo, chiuso e compiuto, all’ipertesto, percorribile in più dimensioni e disponibile a differenti letture).

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