“Inutile studiare il latino perché non serve”. Una frase che ho sentito innumerevoli volte, anche quando il latino si studiava di più e meglio, e che ho sempre considerato basarsi su un equivoco di fondo e su una sostanziale volgarità di pensiero. Di recente la questione è tornata in ballo a causa di un genitore che si era espresso in questi termini scrivendo a «Repubblica». Sono poi intervenuti genitori meno sprovveduti e superficiali e c’è stato un articolo di Stefano Bartezzaghi. D’altra parte, «Avvenire» è su posizioni concretamente ben chiare, visto che ospita la rubrica «Hortensius» di Roberto Spataro, che con tutte – non nascondo – le difficoltà personali del caso, cerco di leggere con ammirazione. Ma torniamo al punto di fondo, e cioè al «non serve». Dico io: non serve a che cosa? E cosa realmente serve? Siamo ancora convinti che l’utilità debba per forza essere immediata e portare benefici immediati? Siamo così legati alla superficie e all’ovvio da non renderci conto che un simile atteggiamento è solo miope e privo di sostanza concreta reale? Il latino è la base del nostro quotidiano modo di parlare, è una lingua che, in fondo, ancora si parla, con le variazioni storiche del caso, in vastissime parti del mondo, e dunque conoscerla è così superfluo?
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Il latino? Serve a capire perché parliamo così
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