Una pagina che ti ha cambiato la vita, mi è stato chiesto. Bella domanda…
Siamo quello che mangiamo, ripeto sempre ai miei studenti. E quante pagine ho mangiato! fin da piccolissima, quando sputacchiavo la pastina sul libro di Cappuccetto Rosso. E poi, bambina, nei miei nascondigli segreti, rintanata con avventure di pirati e cavalieri. E poi più grandicella, a farmi rimproverare dal papà perché leggevo invece che guardare il viaggio dal finestrino. O quando mi svegliavo alle cinque, d’estate, a godermi la frescura e le allodole con i libri di fate. E poi adolescente, a divorare romanzi dell’Ottocento appollaiata sulla conigliera dei nonni, celata dai rami bassi del tiglio. O a viaggiare per la Grecia con il libro delle tragedie. E poi e poi e poi… se siamo quello che mangiamo, ogni pagina mi ha cambiato la vita ed è responsabile di quello che sono.
Ho vissuto molte vite oltre alla mia, ho cercato risposte, ho trovato domande, ho intravisto fari di orientamento e modelli di comportamento.
E allora, per decidere qual è LA pagina che mi ha cambiato la vita, ho cercato nel cuore del problema dei problemi: la possibilità di convivere con la sofferenza umana. E ho voluto rendere un tributo al senso di sollievo che ho provato leggendo le parole di chi più che mai nella sofferenza umana era stato immerso fino alle ossa, eppure ne aveva ricavato una morale semplice: come la felicità perfetta non è realizzabile, così non esiste neanche un’infelicità perfetta. E non perché siamo eroi, ma perché siamo finiti, e niente che sia infinito ci appartiene.
È una morale piccola piccola, che accetta le nostre miserie e la nostra capacità di attaccarci alle piccole cose. È la capacità di sopravvivenza non già dei grandi uomini, ma “di un comune campione di umanità”. È la semplice consapevolezza che possiamo non farci schiacciare dal dolore del mondo, e neanche dal nostro, e che non dobbiamo sentircene in colpa.
È lo stesso sollievo che sento leggendo il Vangelo, il libro degli umili. Quei poveri discepoli che non capiscono niente, i bambini, i peccatori, le donnacce, perfino Pietro rinnegato. Lì i conti non tornano: gli operai dell’ultima ora vengono pagati come quelli della prima, si amano i nemici, si invitano a nozze i barboni. Eppure capisci che va bene così, la vita che ti piace è quella lì, e tu non sei diverso.
Quello che mi ha cambiato la vita è stato qualcosa che ha bilanciato l’effetto schiacciante della mia educazione: nell’ansia da prestazione che mi era stata inculcata, nel senso del dovere, nell’urgenza di fare qualcosa per “salvare il mondo”, queste parole hanno aperto una breccia nella disperazione del “non ce la farò mai” e hanno lasciato la pacatezza del “ce la farò a vivere momento per momento” sostenuta da “questo insensato pazzo residuo di speranza inconfessabile”.
“Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali, che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza.
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Una pagina che mi ha cambiato la vita: L’infelicità perfetta non esiste – Antonella Polesel
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