Protagora e Socrate discutono sulla virtù politica. Commento al “Protagora” di Platone

erma-di-platoneQuesto è un contributo al progetto Filosofare della I D classico

  1. I due filosofi entrano in scena

Il dialogo “Protagora”, come quasi tutti i dialoghi platonici, ruota intorno alla figura di Socrate che in questo caso discute con Protagora, noto sofista di Abdera, sulla virtù politica. L’arrivo ad Atene di questo sofista aveva suscitato un certo entusiasmo, tanto che Ippocrate, amico di Socrate, esprime il desiderio di divenirne allievo. Socrate stesso si mostra molto interessato e desideroso di capire meglio in cosa consista l’insegnamento di Protagora. Davanti a tutte le persone che si erano presentate per ascoltare il dialogo dei due filosofi (si trovano tutti in casa di Callia), Socrate finalmente chiede a Protagora quale profitto il suo giovane amico potrà trarre dal suo insegnamento e in che cosa potrà migliorare. Protagora si mostra subito molto convinto di sé e del proprio sapere: egli risponde di saper insegnare ai giovani a “condursi con senno (“eubulia”) nelle faccende private e in quelle pubbliche”, vale a dire l’arte politica (“politikè tekne”). Protagora si dichiara inoltre sicuro che l’insegnamento di quest’arte non solo sia possibile, ma sia anche necessario soprattutto in una città come Atene dove, grazie al regime democratico, i cittadini possono parlare nelle assemblee e dove dunque servono buoni cittadini (“agatoi politai”) come quelli che lui si propone di formare. A questo punto viene formulata da parte di Socrate la domanda che sta al centro di tutto il dialogo: “L’arte politica può essere davvero insegnata, trasmessa agli altri?” Socrate su questo punto è dubbioso, non condivide l’opinione positiva sostenuta al riguardo da Protagora, ma nonostante ciò mostra rispetto e considerazione nei confronti del suo interlocutore (“Poiché tu sostieni ciò non sarò certo io a dubitarne”, 319 b). Socrate porta a sostegno dei suoi dubbi ciò che avviene durante le assemblee cittadine: “Se per la città si tratta di costruire edifici vengono chiamati in qualità di consiglieri gli architetti. Se uno qualsiasi, che non sia considerato un competente in materia, dà la sua opinione non gli danno retta e lo cacciano via.” (319 b-c). Viceversa chiunque, in assemblea, può dare consigli sul modo di condurre gli affari dello Stato e non ci si stupisce se tutti intervengono anche senza aver avuto un maestro poiché evidentemente, fa notare Socrate, tutti ritengono che la virtù politica sia una qualità che ciascun  cittadino possegga e che perciò non possa essere oggetto di insegnamento. Socrate avanza anche un altro argomento per avvalorare i suoi dubbi ed è il seguente. Se la virtù politica è insegnabile, come mai quei cittadini, come Pericle, notoriamente dotati di grande virtù politica non sono in grado di trasmetterla ai loro figli e di migliorarli in questo ambito? Avanzate queste osservazioni Socrate invita Protagora a sciogliere i suoi dubbi. Questi risponde facendo ricorso a un mito, quello di Prometeo (vedi, più avanti, “Il mito di Prometeo in Platone”) raccontando di come venne donato agli uomini, grazie a Prometeo, il sapere tecnico (“enteknos sofia”). Protagora si sofferma anche sui doni fatti da Zeus affinché la specie umana non andasse distrutta, e cioè “pudore” e “giustizia” (“aidos kai dike”). A differenza di tutte le altre arti, in cui basta un esperto per molte persone, il pudore e la giustizia devono però essere in possesso di tutti i cittadini e, per questo, vengono distribuite a tutti indistintamente. Il significato del racconto è evidente: affinché la città si possa reggere tutti i cittadini devono averne parte e dunque, conclude Protagora, la virtù politica è necessaria così come è necessario il suo insegnamento. Questo primo scambio di idee tra Socrate e Protagora costituisce già un buon esempio di dialogo filosofico, inteso come una discussione in cui gli interlocutori non mirano a prevalere uno sull’altro bensì a ricercare, insieme, la verità adottando un atteggiamento di ascolto e di rispetto reciproco. La filosofia, in quanto “nobile sofistica”, non è tecnica o semplice eleganza retorica. È invece l’instaurarsi di un vero dialogo in cui le ragioni di ciascuno vengono ascoltate e prese sul serio, in cui non si ricorre all’inganno né alla suggestione. Perché si realizzi un vero dialogo occorre però che gli interlocutori credano che sia possibile raggiungere un terreno di intesa, una verità condivisibile. Se, al contrario, chi dialoga è convinto di possedere già la verità e dunque non si mette davvero in discussione, il dialogo stesso diventa una finzione.

(Elena Tiozzo, Denise Margjonaj, Sara Quarin)

 

  1. Intermezzo su Prometeo e lo spirito della filosofia

Vogliamo soffermarci ancora sulla figura di Prometeo, figura emblematica che segna un passaggio chiave per la civiltà umana. Prometeo ruba il fuoco agli dei e lo dona agli uomini, e in questo passaggio dall’epoca della divinizzazione della natura, antecedente a Prometeo, a una nuova epoca in cui l’uomo,  grazie alla luce della conoscenza e della razionalità tecnica, può uscire da una condizione di passività e imparare a trasformare l’ambiente che lo circonda. Risiede qui la vera differenza tra il pensiero mitico, tradizionale, e il pensiero razionale, la differenza tra mito e logos. Con l’avvento del pensiero razionale, collocato nel VI secolo nelle città greche dell’Asia minore, ad opera dei filosofi ionici, studiosi della natura, il logos si sarebbe liberato dal mito “come le scaglie cadono dagli occhi del cieco” (J.P. Vernant, “Mito e pensiero presso i Greci”). In questo momento si sarebbe rivelato per la prima volta lo spirito (umano) e la sua potenza. Lo stesso Vernant ci informa che sul passaggio tra mito e logos ci sono tesi differenti, che lo presentano più nei termini di una continuità che in quelli di una frattura profonda. Resta il fatto che la figura di Prometeo incarna un’idea di umanità nuova, proiettata verso l’ideazione e la creazione di cose nuove, artificiali, capace grazie all’uso della ragione di realizzare progressi continui nel proprio modo di vivere, superando un insieme di spiegazioni (sulla natura e sull’uomo stesso) a lungo considerate sacre e immutabili. Prometeo rappresenta il libero pensiero, che si sviluppa con esiti fecondi nell’ambito delle tecniche ma non solo in esso, un pensiero “sacrilego” che non pone limiti alla ricerca che per questo minaccia di corrodere i valori tradizionali con la sua critica sistematica. Gli uomini pretendono ora di ragionare su ogni cosa e non accettano più verità preconfezionate o dogmi indiscutibili. E la filosofia rappresenta questo spirito nuovo, prometeico, lontano da atteggiamenti sacrali, sia con l’agnosticismo di Protagora (“Intorno agli dei non sono in grado di sapere né che siano, né che non siano… Infatti lo impediscono l’impossibilità di averne esperienza e la brevità della vita umana”) sia con l’affermazione di Socrate secondo cui: “Solo il dio è sapiente”, mentre gli uomini possono sì interrogarsi sulla verità, ma mai raggiungerla completamente.

(Marco Bet, Umberto Giordani, Francesca Pujatti)

  1. Protagora afferma la centralita’ dell’educazione

La svolta segnata dal pensiero logico-razionale ha importanti conseguenze in campo etico-politico, in quanto spinge gli uomini a cercare delle forme più evolute per governarsi. Infatti c’è una critica nei confronti delle forme di governo oligarchiche (potere aristocratico-sacerdotale) ritenute ormai arcaiche. C’è il desiderio di un governo retto da leggi fatte dall’uomo per l’uomo (autonomia = darsi delle leggi da soli). Il confine tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto non viene più dettato dagli dei ma viene stabilito dagli uomini. Nascono così le leggi (“nomoi”) che vengono contrapposte alla “phisis”, a ciò che è quindi dettato dalla natura. La differenza tra i due tipi di leggi è molto evidente: le leggi naturali ci dicono come necessariamente avvengono le cose mentre i “nomoi” ci indicano le regole di comportamento che gli uomini possono adottare per una convivenza più giusta e razionale. E in questo processo di laicizzazione delle leggi diviene fondamentale il ruolo dell’educazione: essa è il punto di partenza per la formazione di buoni cittadini, tali da poter assumere non solo il governo della propria casa ma anche e soprattutto esercitare una funzione attiva nella città, nell’assemblea, nelle discussioni pubbliche. E proprio per questo Protagora rivendica orgogliosamente il proprio ruolo di insegnante di “educazione civica”, come diremmo oggi. Egli  dichiara di non aver mai mascherato le sue finalità educative servendosi di altre arti, quali la poesia o la ginnastica, come invece avevano fatto altri sapienti del passato. C’è nelle sue parole il segno dei cambiamenti politici: ad Atene c’è la democrazia, quindi i cittadini possono parlare ed esprimere liberamente le proprie opinioni. L’insegnamento sofistico, in questo contesto, è pienamente legittimo e, anzi, viene addirittura richiesto. Sulla base di queste considerazioni, Protagora affronta la discussione su questi temi, come in  “una vera e propria assemblea” (317 d), proprio perché non ha nulla da nascondere e può quindi parlare tranquillamente in pubblico. L’educazione di cui si parla qui non ha come scopo l’“arethè” antica, la virtù guerriera; scopo primo e fondamentale dell’educazione è piuttosto quello di trasformare i giovani in persone civili e razionali. L’educazione è, dunque, sinonimo di civilizzazione. L’uomo, in quanto concepito come un “animale razionale”, in possesso cioè della ragione (logos), può sottrarsi al dominio assoluto degli istinti e così comunicare con i propri simili in modo molto più raffinato rispetto agli altri animali. La centralità del ruolo dell’educazione viene anche ribadita nella risposta di Protagora alla domanda di Socrate relativa all’insegnabilità della virtù. L’educazione, per Protagora, non consiste tanto nell’apprendere varie arti, ma più che altro nell’imparare a comportarsi bene. I genitori infatti, mandando a scuola i propri figli, “…raccomandano al maestro che si prenda cura della buona condotta del ragazzo più che dell’insegnamento delle lettere e della cetra” (325 d). Ed è a tale fine che spesso si ricorre alla punizione, come a un mezzo per educare. Protagora spiega che il fatto stesso che vengano puniti i comportamenti ingiusti dimostra che la virtù politica si possa, anzi si debba, apprendere e coltivare. Chi si comporta male è responsabile di aver trascurato la propria educazione e i propri doveri, e per questo è colpevole agli occhi dei suoi concittadini (piuttosto che nei confronti degli dei). Per Protagora è dunque necessario impegnarsi tutti insieme in un processo di educazione reciproca e permanente in cui ciascuno impari a discutere e a confrontarsi con gli altri in modo rispettoso e responsabile. Nell’ambiente della città, se avviene che qualcuno sia più virtuoso degli altri deve sentire il dovere di insegnare la propria arte in quanto tutti sono “maestri di virtù, ciascuno secondo le proprie capacità” (327 d). Protagora dice: “In realtà, noi uomini, tutti insieme, siamo in un certo qual senso più sicuri di fronte ad ogni opera, discorso, pensiero” (348 d). Con ciò vuole sottolineare l’importanza della comunità, dove si impara a non “aver ragione da soli” ma a dar ragione agli altri (“didonai logon”) delle proprie affermazioni. Tuttavia la ragione, che accomuna tutti gli uomini, non garantisce l’accesso ad una verità assoluta e universale. Qui entra in gioco la visione relativistica, e laica, dei Sofisti che si oppone all’idea di verità assoluta, valida per ogni uomo, di filosofi come  Parmenide o Eraclito. Questi considerava infatti il Logos come la via capace di rivelare all’uomo la Verità, e con essa la Giustizia. “Il mondo di Parmenide è un mondo della scelta in cui esistono due vie, quella di Aletheia e quella delle Doxai” (Detienne, “I maestri di verità nella Grecia arcaica”). I Sofisti come Protagora invece sottolineano e tengono fermi i limiti della ragione umana, per loro il “logos” si muove in un ambito relativistico. “L’uomo è misura di tutte le cose” significa che ciò che giova a qualcuno può essere dannoso per un altro, che nessuno è depositario della verità assoluta, che bene e male cambiano forma a seconda delle persone. E proprio questa condizione rende necessario il dialogo attraverso il quale si può, con pazienza, raggiungere un’opinione più vantaggiosa per la “polis” e più condivisa all’interno della comunità. Il “logos” dei Sofisti non è la “verità comune”, è solo “mezzo comune”- che permette di confrontare tra loro opinioni diverse. Diversamente da Eraclito e da Parmenide, il “logos” non è il discorso che annuncia la verità e neppure è la legge che governa l’intero cosmo, ma è soltanto una tecnica che può essere trasmessa e imparata attraverso un’educazione appropriata. E l’arte retorica non riguarda solo alcuni uomini come le altre arti: essa può e deve essere esercitata da tutti,  può essere sempre migliorata, per permettere a tutti di comunicare in modo efficace le proprie idee. I Sofisti sono maestri di arte retorica, dunque tecnici del linguaggio, dell’arte di comunicare e di persuadere. In quanto maestri di questa tecnica oratoria, essi considerano il loro sapere insegnabile, proprio come è insegnabile la dialettica, la grammatica, la sintassi. Senza le competenze linguistiche nessun dialogo si può instaurare e neppure è possibile, come afferma Protagora, “il reciproco scambio di giustizia e di virtù che credo giovi a tutti noi, ed ecco perché ciascuno all’altro parla volentieri ed insegna il giusto e il legittimo” (326 b).

(Marta Biancolin, Miriam  Maniero, Elisa Micheluz, Chiara Fabrici)

  1. Intermezzo su Gorgia e lo spirito della tragedia 

Il relativismo dei Sofisti raggiunge il suo culmine con Gorgia. Egli ritiene che gli uomini non possano, discutendo tra loro, trovare un terreno comune, una verità condivisa, in quanto sono dominati dalle passioni più che dalla ragione. Gorgia, massimo esponente dei Sofisti, sostiene tre tesi; la prima: “Nulla è (vero)”; la seconda: “Anche se qualcosa fosse (vero), sarebbe inconoscibile”; la terza: “Anche se fosse conoscibile, sarebbe incomunicabile”. Soffermiamoci sulla terza tesi, con cui Gorgia sostiene che chi parla trasmette parole, non cose. I discorsi umani non possono giungere a identificare la realtà, cioè a descriverla oggettivamente: il linguaggio vive dunque in una dimensione autonoma, convenzionale. Esso, però, se non rispecchia la realtà, la può produrre: il discorso persuasivo infatti genera un “effetto di verità” in quanto è recepito “come se” fosse vero.  Per questo il fine dei discorsi umani non è quello di dimostrare qualcosa come vero quanto quello di entrare in sintonia con le passioni, i sentimenti degli interlocutori per ottenerne il consenso. Gorgia è consapevole che l’arte retorica è l’arte della suasione, come dimostra nell’“Encomio di Elena”, da lui scritto per rappresentare Elena non come colpevole ma piuttosto come vittima dei sentimenti e delle emozioni che le parole di Paride hanno suscitato in lei. Gorgia sottolinea che l’arte retorica, come tutte le arti, è un “farmakon”, perché può essere usata sia a fin di bene che per ingannare, è sia un rimedio sia un veleno. L’arte retorica è ambivalente come tutte le tecniche: “La parola è una potente signora, che pur dotata di un corpo piccolissimo e invisibile, compie le opere più divine: può far cessare il timore, togliere il dolore, produrre gioia e accrescere la compassione” (Encomio di Elena). Ma nello stesso modo la magia della parola e il suo incantesimo possono essere impiegati per trascinare gli uomini verso esiti distruttivi provocando “l’errore dell’anima e l’inganno dell’opinione”. I Sofisti, e Gorgia in particolare, hanno riconosciuto la potenziale tragicità del logos, mostrando come all’interno della città il conflitto sia la regola, dal momento che è molto difficile far convivere pacificamente decisioni, aspettative, sentimenti, così diversi. Molti secoli dopo sarà Nietzsche ad attribuire ai Sofisti il merito di “aver compreso la cifra tragica dell’esistenza e il dominio relativistico della retorica su ogni illusione dogmatica di verità assoluta”. È impossibile, per i Sofisti, che si possa evitare lo scontro e che si affermi una sola verità, a meno che non venga imposta dall’alto. Tuttavia l’impossibilità di ricondurre il molteplice ad un’unità assoluta, pur esponendo la città a pericoli anche gravi, era da considerare come il segno del progresso, cioè il risultato delle trasformazioni e dei progressi stessi che la città di Atene aveva conosciuto in un breve arco di tempo. La partecipazione del demos alla vita pubblica, però, per non sfociare nel disordine richiedeva la creazione di strumenti pedagogici in grado di favorire una maturazione politica da parte di tutti. Bisognava, allora, consentire ai cittadini di acquisire qualche capacità nel saper “trattare e discutere le cose dello stato”. Questa era anche una delle finalità del teatro tragico: aiutare i cittadini ad assumere su di sé, con serietà e responsabilità, compiti politici liberandoli dalla presunzione di possedere un sapere infallibile, di natura divina e, invece, familiarizzandoli con le contraddizioni e le limitazioni insormontabili della condizione umana. Christian Meier, nel saggio “L’arte politica nella tragedia greca”, sottolinea il ruolo svolto dalle tragedie – rappresentate nel corso delle feste a cui partecipavano  moltissimi cittadini – nell’ambito dell’educazione dei cittadini. Esse sviluppavano quello che l’autore definiva il “sapere nomologico”, il fondamento etico e intellettuale della convivenza politica. E facevano ciò rappresentando, in modo realistico e non consolatorio, la natura conflittuale della stessa convivenza, l’ineludibilità delle controversie in ambito etico e politico e insieme indicando la necessità di mantenerle nell’ambito civile della contesa verbale. La rovina dell’eroe tragico doveva costituire un ammonimento per evitare la “dismisura” e la pretesa di “avere ragione da soli”.

(Marco Dalla Bona, Sofia Polesel, Stefano Coran)

  1. Socrate e  Protagora concordano su una prima definizione della virtù 

Torniamo al dialogo platonico. I ragionamenti di Protagora sulla necessità dell’educazione politica e, dunque, sull’insegnabilità della virtù politica non sembrano a Socrate del tutto convincenti. Per lui l’arte retorica non può coincidere in tutto e per tutto con la virtù politica, anzi, egli manifesta una certa diffidenza nei confronti dell’abilità di fare lunghi e bei discorsi che spesso si risolvono in monologhi vaghi in cui manca una chiara risposta alla domanda posta.  Socrate a questo proposito fa l’elogio della “laconicità”, cioè del saper parlare con poche parole, in maniera concisa ma chiara. Rivolgendosi a Protagora, egli  dichiara la sua ammirazione verso questa capacità per cui gli Spartani sono noti ancor più per la cura della prestanza fisica: “Che nei ragionamenti filosofici gli Spartani hanno un’ottima formazione lo saprete in questo caso: se qualcuno vuole intrattenersi col più inetto degli Spartani, nella maggior parte dei casi proverà che lo Spartano dai suoi discorsi apparirà davvero uomo di nessun valore, solo che, poi, dove gli si presenterà l’occasione del discorso, scaglierà, come ottimo arciere, una frase significativa, breve e densa, sì che il suo interlocutore farà la figura di non essere da più di un bambino. Di questo, appunto, c’è chi si è accorto, sia tra i contemporanei sia tra gli antichi, cioè che “laconizzare” significa filosofare molto più che andar pazzi per la ginnastica, poiché si sono resi conto che pronunciare tali frasi è da uomini che hanno ricevuto una perfetta “paideia”” (342 d-e). Socrate preferisce dunque la “brachilogia”, cioè l’uso del discorso breve, alla “macrologia”, cioè l’uso del discorso lungo, e dopo aver mosso con le sue parole ironiche un rimprovero a Protagora, che continua a proporgli lunghi e intricati discorsi: “Certo Protagora, perché tu sei capace, a quel che si dice, e come tu stesso confermi, di sostenere un colloquio sia con un lungo discorso (macrologia), sia con un discorso breve (brachilogia), poiché tu sei sapiente mentre a me è impossibile fare lunghi discorsi, nonostante desideri esserne capace” alla fine lo invita a rispondere alle sue domande in modo conciso:  “E dunque, per rendere possibile il colloquio, poiché sei ugualmente capace nei due generi di discorso, bisognerebbe che tu mi venissi incontro” (335 b-c). Ciò che sta a cuore a Socrate, e su cui vuole giungere a una qualche conclusione, è la questione di cosa sia la virtù politica, della sua definizione. Se infatti non si sa cos’è, come si può agire bene? Come si può agire bene, se non si ha l’idea del Bene, l’idea della giustizia? Sulla possibilità di giungere a una definizione del Bene, Protagora è scettico e ribadisce il suo relativismo. Secondo lui non è pensabile un’idea del Bene, che possa soddisfare tutti. Socrate ribatte chiedendo a Protagora di riconoscere che comunque esistono comportamenti sbagliati, e sbagliati per tutti. Protagora si dichiara d’accordo su ciò e spiega che questo avviene quando l’uomo cede agli impulsi, dà ascolto ai propri istinti e non riesce a resistere al richiamo dei propri sensi. Tale criterio può condurre a scelte sbagliate perché cose che sembrano piacevoli hanno invece conseguenze spiacevoli, mentre al contrario cose “che procurano sofferenze e dolori fortissimi” sono necessarie per poi stare bene e avere conseguenze piacevoli, come ad esempio i trattamenti medici. Socrate, a questo punto, si sente autorizzato ad affermare che esiste dunque un’idea del Bene, un criterio che ci fa dire cosa è meglio attraverso il calcolo dei pro e dei contro. I due filosofi concordano dunque nella possibilità di distinguere, rispetto al Bene, chi sa e chi non sa, chi è saggio e chi è ignorante. La saggezza è la capacità di scegliere ciò che è più utile andando oltre alle apparenze: un’”arte della misura”, come la definisce Socrate (“tekne metetrike”). In conclusione si può dire che è saggio colui che è in grado di valutare anche le conseguenze di ciò che fa e dunque di ragionare per giungere a fare la scelta migliore. Chi non sa, chi non sa agire bene, è invece colui che  valuta solo in base all’apparenza, che non riflette e che dunque non conosce l’“arte della misura”. Dunque “…è per difetto di scienza che errano nella scelta dei piaceri e dei dolori, cioè dei beni e dei mali, quelli che errano” (357 d). Proprio perché è convinto che occorra “pensare prima” (di agire) Socrate afferma che “…anche nel mito, Prometeo mi è piaciuto più di Epimeteo” (361 d). Ribadendo così, anche da parte sua, il legame tra la filosofia e la figura di Prometeo.

(Giulia Mazza, Alice Santin, Sara Biancifiori)

  1. Il “demone” di Socrate e il suo rapporto con la virtu’ politica

Il dialogo tra Protagora e Socrate, nell’opera di Platone di cui ci stiamo occupando, si ferma qui, cioè a una prima definizione della virtù politica su cui concordano i due interlocutori. Sappiamo però che il pensiero di Socrate non si ferma qui, ma prosegue e si arricchisce come risulta da altri dialoghi. Fin qui quello che abbiamo compreso è che tutti gli esseri umani hanno un corpo e di conseguenza una sensibilità: hanno tutti la capacità di distinguere immediatamente ciò che è piacevole da ciò che è dannoso, ciò che è utile da ciò che non lo è. Avendo anche la ragione, gli uomini sono in grado però di valutare con più ponderazione ciò che è più utile e vantaggioso per il singolo e per la comunità. A questa visione, propria anche dei Sofisti, Socrate aggiunge qualcosa di nuovo. Egli fa riferimento a un’istanza che si trova dentro di noi, a una dimensione che non è più fisica e materialistica, ma psicologica e morale: l’anima. L’anima è qualcosa che ci appartiene ma che trascende il nostro orizzonte particolare: da essa deriva la capacità di vedere al di là del proprio corpo e dei propri interessi, per chiederci se stiamo compiendo un’azione giusta e vantaggiosa per tutti o solamente per noi stessi. Socrate parla di una voce interiore, di un “demone”. Si tratta, come già detto, di un’entità individuale, propria di ciascun individuo, con cui occorre instaurare un rapporto intimo e personale, per poi fare le scelte più giuste, e assumere così la responsabilità del proprio agire. È perciò necessaria la cura dell’anima (“tes psyches epimeleia”): ogni uomo deve curare la propria anima, e curare così se stesso. Noi infatti siamo quello che decidiamo di essere, e diventare responsabili significa rispondere al proprio demone, non tacitarlo. Quindi il demone non è un impulso, cioè una spinta: le spinte infatti sono legate solo al corpo. Al contrario, esso è un freno, in quanto ci chiede, ci comanda, di riflettere prima di agire. Socrate definiva il demone “…come una voce che io ho in me fin da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade da cosa che io sia per fare, e non mai ad alcuna mi persuade” (Apologia, 31 c-d). Il demone è dunque il senno di prima, non di poi. Il “sapere prima” che nasce dal nostro dialogo con il demone non è però un sapere perfetto e positivo, come abbiamo visto. Si può comprendere meglio, a questo punto, il senso del socratico “sapere di non sapere”. Noi, interrogando il demone, non sappiamo con certezza cos’è il bene e questo non-sapere ci evita di essere arroganti e privi di esitazioni nel nostro agire. Dall’altra parte il demone ci permette, se lo vogliamo, di sapere, di prevedere, se ciò che ci accingiamo a fare possa produrre danno e malessere ad altre persone. Aggiungiamo che il demone non va inteso come un ritorno al passato e alle credenze mistico-religiose, come sostiene Senofonte quando scrive che “… la voce di Dio che dà a Socrate ammonimenti e consigli su quel che egli debba fare, quasi “oracolo interiore””. Non possiamo intenderlo in questo modo poiché Socrate non si attribuisce un sapere superiore o divino, non si considera un eletto, ma soltanto un uomo che sa ragionare, ascoltando il proprio demone interiore, come possono fare tutti gli altri uomini, né più e né meno. Possiamo aggiungere che il demone può anche essere visto come “la voce dell’altro”, presente in noi, oppure come un giudice che valuta le nostre azioni e ci permette di interrogarci sulla loro bontà. In conclusione per Socrate è necessario che i cittadini sappiano, oltre che dialogare con gli altri, dialogare anche con se stessi, altrimenti la democrazia rischia di essere “senz’anima”. Occorre che i cittadini ascoltino il proprio “daimon”, ma si tratta di un ascolto che nessuno può svolgere al posto nostro, e neppure insegnarcelo (e questa è la vera divergenza rispetto a Protagora), perché avviene nell’interiorità della persona: è questo il senso socratico del “Conosci te stesso” (“gnothi seauton”).

(Giulia Rigo, Alessia Cencig, Alessio Zambon, Francesco Morciano)

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