Liceo Classico: sì o no? (Alberto Francesconi)

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“Prof, ma a che serve il liceo classico?”

Eccolo, è questo il momento. Un professore lo sa. Arriva sempre quella tredicenne che, con innocenza e un pizzico di curiosità, alla presentazione dei vari istituti superiori nelle scuole medie, chiede al classicone di turno a cosa servono quelle 9 ore di lingue morte alla settimana e nessuna di tecnologia, informatica, fisica… E’ questo il momento di colpire per un insegnante, di convincere quella giovane mente spaesata e un tantino scettica del fatto che il classico è una scuola più che mai utile e moderna. Quante cose potrebbe dire un professore, quanti elementi potrebbe elencare, quante applicazioni di greco e latino per un futuro universitario e non solo potrebbe snocciolare così, su due piedi… Ma il professor Riva, con quel sorriso compiaciuto di chi pregusta l’effetto delle parole che sta per pronunciare, risponde così:

“A fare la spesa.”

Possiamo solo immaginare la faccia stupita della ragazzina, inebetita di fronte ad una simile affermazione. Una sciocchezza, penserà. Ma, in verità, una sciocchezza non lo è affatto.
Già, perché quell’ammasso di ore passate a studiare lingue morte è una palestra mentale strepitosa, un’eccellente scuola di logica, una fatica che richiede organizzazione e impegno ma che, se affrontata in modo costruttivo, diventa fonte inimitabile di ordine mentale e capacità di ragionare, tutte doti fondamentali ogni giorno, che si tratti di tradurre Seneca o di comprare broccoli al mercato. Magister Riva dixit.
Ma un’altra questione importante è: quelle che si studiano al classico sono davvero lingue morte? D’accordo, difficilmente capiterà di incontrare qualcuno che al ristorante faccia le ordinazioni in latino o che al giornalaio chieda una copia del Messaggero Attico. Ma non bisogna dimenticare che queste lingue sono parte di noi, del nostro italiano, che sono nostre madri, come lo sono la letteratura e più in generale la cultura greco-romana in toto; inoltre, per citare il celebre latinista e scrittore Luca Canali, “Roma è stata la nostra patria dalla quale abbiamo assorbito la civiltà greca”. Insomma, etimologicamente e nel contenuto latino e greco sono parte di noi, della nostra storia e della vita che conduciamo tutti i giorni.
Innegabile tuttavia che il liceo classico stia vivendo una crisi non indifferente: secondo dati ufficiali, il 2013/14 è un anno di magra per le iscrizioni che dopo un costante calo dal 2007 in poi ha raggiunto il record negativo degli ultimi tempi registrando solo 31.000 iscritti, a fronte dei 65.000 di cinque anni fa.
In poche parole un crollo verticale. Ma la domanda è: per quale motivo?
Un’unica risposta non c’è. Probabilmente però la causa principale è che in questo periodo di crisi nera le famiglie tendono a preferire per il futuro dei propri figli indirizzi che non richiedano un prosieguo degli studi alle università, quindi istituti tecnici o scuole professionali. Pensiero più che legittimo, e in questo senso a poco serve la considerazione di Beppe Severgnini che afferma “Gli studi si allungano anche dopo la laurea, le superiori sono il momento per mettere fieno in cascina”; dopotutto, viene da pensare, siamo in Italia, e in Italia si ha paura del futuro, si cerca disperatamente un appiglio in quel pezzo di carta che attesti che tuo figlio a diciotto anni sia in grado di lavorare.
Piergiorgio Odifreddi e Margherita Hack, a questo proposito, si chiedono per quale motivo sottrarre ore a lingue straniere e materie scientifiche con lo studio delle famose lingue morte, il primo sottolineando anche quanto sia sufficiente studiarle in privato, una volta completati gli studi superiori e universitari o perfino, perché no, dedicarsi al Sanscrito, che pure è una lingua indoeuropea. Ebbene, qualche risposta la dà Giorgio Israel, nel suo articolo “Perché se muore il liceo classico muore il Paese”. Esatto, muore il Paese. Perché, quanto è vero che in Italia si teme il futuro, è altrettanto vero che l’Italia è la nazione con più del 40% dei beni storico-culturali del mondo, uno stato che dovrebbe sfruttare l’immenso potenziale economico di questo patrimonio per creare posti di lavoro; ad oggi questo non accade, ma confidando nella futura classe dirigente, è necessario impegnarsi a “non disperdere la memoria dell’identità storico-culturale italiana”.
Sempre Israel fa un’interessante considerazione, evidenziando come erroneamente “le scienze vengono separate dalla cultura” mentre è indispensabile una corretta e bilanciata distribuzione di questi elementi all’interno di una società in continuo sviluppo come la nostra.
Ebbene, si potrebbe dire questo e molto altro ancora a quella tredicenne incerta. O forse nulla di più. Forse ancora una volta il professor Riva in poche parole ha detto tutto. Un classico.

Alberto Francesconi

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