Scusate il disturbo ma ho bisogno di sfogarmi un po’. Sono appena scoccate le otto di sera e non ce la faccio più: ho passato tre ore a correggere temi tutti uguali, tutti prevedibili e scontati e quindi tutti terribilmente noiosi. Non ce l’ho con i miei poveri studenti: loro probabilmente ce la mettono tutta per evitarmi inutili sofferenze. Ce l’ho con chi per primo ha introdotto nell’Esame di Stato il famigerato saggio breve. Era il 1997 (legge 10/12 n.425) e da allora nulla è stato più come prima.
Alla paginetta con le classiche tracce per il testo argomentativo (ai miei tempi l’insegnante ce le dettava) sono subentrate pagine e pagine di documenti, tenuti insieme da un generico titolo e da una cosegna lunga quindici righe.
E siccome nessuno ha capito veramente cosa pretendano al Ministero da noi e dagli studenti, negli anni sono state pubblicate tonnellate di libri prodighi di consigli e di esempi su come svolgere correttamente il saggio breve. E poi valanghe di siti internet dedicati all’argomento: “minicorso sul saggio breve”, “l’angolo del saggio breve”, “atti di una giornata seminariale sul saggio breve”, “differenze fra saggio breve e articolo di giornale”, “tracce di saggi brevi già svolte” (e pessime), pagine facebook “per l’abolizione del saggio breve”.
Siamo davvero sicuri che “Sua Maestà il saggio breve” meriti così tanta attenzione da parte di tutti? E voi studenti, che per il 60% vi affidate proprio a Lui per ottenere la sudata promozione, sapete veramente i rischi a cui andate incontro? Mi permetto di segnalare qui di seguito alcune questioni, partendo proprio dall’analisi della consegna iniziale.
La traccia impone un limite alla lunghezza del tema: “non superare le 4-5 colonne di metà foglio di protocollo”. Ecco: quel che mi tormenta è il numero, anzi, i numeri. Perché 4-5? Chi lo ha stabilito, e in base a cosa? Ma soprattutto: sono 4 o sono 5? Se si vuole imporre un vincolo, il vincolo deve essere preciso, altrimenti meglio lasciare stare. E’ un po’ come se mi dicessero che nelle strade urbane non posso superare i 50-60 km orari, o che, quando vado nel bosco, non posso raccogliere più di 5-10 chili di funghi. Un divieto deve avere un termine preciso, altrimenti non è più un divieto. In più, se infrango una regola prendo una multa: se lo studente scrive un ottimo tema ma va oltre il limite consentito, dovrebbe essere penalizzato?
La seconda questione riguarda l’utilizzo dei documenti. Bisognerebbe intanto chiarire in che senso lo studente deve “utilizzare i documenti”: deve citarli in modo diretto (con tanto di virgolette) o può limitarsi a riassumerne i contenuti? E poi: quanti documenti? Le interpretazioni a questo proposito si sprecano: c’è il professore più “estremista” che pretende l’utilizzo (con citazione diretta) di tutti (tutti!) i documenti. C’è il professore “moderato” che propone la formula del “50%+1”, ovvero l’obbligo di citare “almeno un po’ più della metà” dei documenti (“in medio stat virtus”. O quasi). Infine c’è il professore “alternativo” sostenitore della formula “non solo uno, ma neanche tutti”. Insomma, maldestri tentativi di neutralizzare le eventuali obiezioni del “terribile commissario esterno”, che, chissà perché, ci si immagina sempre “venuto dalla luna”, e quindi sprovveduto, privo di buon senso, estremamente fiscale nell’applicare alla lettera le regole, come se non sapesse come va la scuola. Il risultato finale in ogni caso sarà lo stesso: lo studente come una sarta dovrà dotarsi di ago e filo (il famoso “filo del discorso”) e cercare di tenere uniti dei documenti disparati e che il più delle volte non hanno alcuna relazione fra loro. Che poi abbia qualcosa di suo da dire, ormai interessa poco. Lo scorso anno mi è capitato di leggere un bellissimo tema; mi stavo già armando di penna rossa per stampare sul foglio un meritatissimo otto, quando all’improvviso ho realizzato che lo studente non aveva citato neanche un documento del dossier (e in più, incredibile dictu, aveva superato le cinque colonne). Insomma il ragazzo aveva tante cose intelligenti da dire e quindi non aveva sentito alcun bisogno di “scopiazzare” i contenuti del dossier. Confesso di avere avuto la forte tentazione di scrivere in calce al tema “il testo è molto interessante ma purtroppo hai troppe idee; devi sforzarti di riciclare un po’ di più quelle degli altri”.
Altra questione: la destinazione editoriale. La traccia chiede all’alunno di immaginare la scrittura in un contesto comunicativo che non abbia solo fine scolastico, e soprattutto chiede di orientare la scrittura in funzione del destinatario. Di per sé il tentativo è lodevole, ma i risultati sono pessimi. Lo studente che fa l’esame di maturità si sente studente e basta, e tale si sentirà fino a quando non avrà ottenuto il diploma. Insomma l’allievo non si sente giornalista, sa che il suo unico vero lettore sarà il professore che giudicherà il suo scritto. Di solito ha già deciso (fin dal terzo anno) quale sarà la sua “perenne destinazione editoriale” e la ripeterà tale e quale fino all’esame finale.
Così, negli anni, fra professori e studenti, si sono diffuse due “scuole di pensiero”. C’è quella più estrema che trasforma la scelta della destinazione editoriale in una gara a chi la spara più grossa: “io scrivo sul Gazzettino, anzi no, sul Corriere della Sera o su La Repubblica, ma se parlo di crisi economica allora il posto giusto è Il sole 24 ore”. E in fondo non è così sbagliato: se devo fingermi giornalista, tanto vale puntare in alto.
C’è poi la scuola di pensiero più umile e timorosa, di chi non se la sente proprio di diventare improvvisamente giornalista e allora opta per un discreto “Giornalino scolastico” o al massimo per un “fascicolo di ricerca e documentazione”. Insomma il vecchio tema prettamente scolastico, che esce dalla porta e rientra dalla finestra.
Ultima considerazione: alzi la mano chi ha veramente capito qual è la differenza fra saggio breve e articolo di giornale: ogni insegnante ha una risposta diversa e sono tutte assolutamente accettabili. Facciamo un esempio: se lo studente immagina di scrivere un editoriale o un articolo di opinione pro o contro qualcosa, come diavolo lo deve chiamare? La logica direbbe che si tratta di un articolo di giornale, per il sempre banalissimo motivo che un articolo di solito si pubblica su un giornale. Ma il “pezzo” rientra anche nella cosiddetta “scrittura documentata”, è un testo argomentativo in cui l’autore non si limita ad esporre, ma avanza e dimostra la propria tesi, e confuta eventuali antitesi (“saggio” da “exagium, exigere” cioè pesare, valutare). Quindi? Qualcuno risolve la questione sostenendo che non c’è articolo di giornale se non c’è una notizia e che quindi, a partire dalla documentazione, lo studente dovrebbe appunto inventarsi una notizia e su quella costruire il testo. Per esempio, se i documenti vertono sull’argomento “La piazza luogo dell’incontro e della memoria” (Esame a.s.2000-2001) ci si potrebbe inventare l’inaugurazione di una nuova piazza nella propria città e su questo costruire un articolo di cronaca che racconti l’evento. Francamente la soluzione non convince: tra l’altro non si capisce il motivo per cui, per dimostrare di sapere scrivere dopo anni e anni di scuola, uno studente dovrebbe cimentarsi in un banalissimo articolo di cronaca, per di più inventandosi i fatti.
Conclusione 1: scrivere un saggio è un’operazione complessa, che presuppone una ricerca approfondita (non certo basata su quattro documenti in croce) e che solo all’università, e forse nemmeno lì, lo studente sarà in grado di fare.
Conclusione 2: per scrivere un articolo di giornale occorre muoversi, documentarsi, cercare la notizia e tutto questo durante l’esame di maturità non si può fare.
Conclusione 3: a scuola si può invece scrivere un buon testo argomentativo, il quale richiede capacità di saper sostenere in modo chiaro e convincente le proprie idee. E il testo argomentativo è la forma testuale su cui sempre si sono cimentate negli anni generazioni e generazioni di studenti. Perché cambiare?
Il mio gol alla Ibrahimovic non vale nulla di fronte a questo magnifico articolo (ops, scusa, saggio breve) in cui finalmente qualcuno non si perita di espimere apertis verbis quello che tutti pensano (o farebbero bene a pensare).
Una lezione di intelligenza e parrhesìa. Complimenti.
Ovviamente condivido anch’io. E passo (in realtà sono già passato) all’azione.