Massimiliano Santarossa ne ha viste e fatte tante, come dice lui, “ho fatto parte della giungla urbana di periferia” di Villanova. Dopo la terza media la scuola non l’ha più voluto e lui ha cominciato a lavorare prima come falegname, poi come operaio in una fabbrica di materie plastiche.
Poi ha iniziato a scrivere. Hai mai fatto parte della nostra gioventù? e Storie dal fondo sono, insieme a Gioventù d’asfalto e Viaggio nella notte, i suoi racconti di giovani condannati al furto del loro futuro, a lavori disumani, e dunque al rito del sabato sera, alla droga, ai tentativi di fuga sfrenata fino al lunedì seguente. Il Nordest degli ultimi, delle periferie dimenticate da tutti, tranne che da loro, maledetti figli della notte.
Alla osteria vicino casa sua, dove ancora lo si può talvolta incontrare, Santarossa ha raccolto i sentimenti, le avventure, i sogni, i dolori di molte persone scavate dalla vita, ha raccontato un’intera generazione. Ebbene, noi del Blogleomajor lo abbiamo contattato tramite Facebook, per un’intervista di approfondimento, di “sondaggio” di possibili novità, di conoscenza dello scrittore Santarossa.
Le anime fragili (ma vive) di cui hai scritto trovano una loro liberazione, seppur temporanea, nella notte. Qual è il tuo rapporto con la notte?
Nel mio nuovo romanzo in uscita tra pochi mesi (novembre 2013, ndr), “Il Male”, il protagonista che è Lucifero osservando la notte dice: “Padre, hai forse creato la notte per difendere l’uomo dall’uomo? l’hai forse pensata per dar loro la possibilità di nascondersi da loro stessi?” Per me, per i personaggi dei miei romanzi, in definitiva per tutti, la notte è l’unico momento biologico del corpo dove il corpo stesso ricerca e in parte rigenera un “bene intimo”, anche quando in casi estremi diviene un bene osceno, sballato, un bene al contrario. Di notte il corpo sta meglio, così avviene oggi e così accadeva nell’antichità, è una condizione invisibile ma reale che ci portiamo nella genetica. Diecimila anni fa l’uomo abitava la notte per difendersi dalle bestie. Oggi l’uomo abita la notte per difendersi da se stesso, e in essa trova sfogo, evasione, appunto liberazione.
I tuoi personaggi vivono in una cittadina come Villanova, si spostano tra le provincie di Pordenone e Treviso. Che cos’ha secondo te di particolare questa zona, rispetto al resto dell’Italia, dal punto di vista di ciò che provano le persone vivendo in questi luoghi così densamente urbanizzati?
I personaggi dei miei precedenti romanzi si muovevano qui, a Nordest. Oggi non più. Oggi il Nordest è imploso, prima, e sta esplodendo, ora, come concetto geografico, sociale, politico. La società è liquida, identica, qui come ovunque. Invece fino a inizio anni Duemila, vivere a Pordenone, Treviso, Udine, Padova, significava avere la possibilità, in città piccole o medie, di poter stare a diretto contatto, in poche centinaia di metri, con i fenomeni di ricchezza estrema e di povertà estrema; difatti i palazzoni popolari degli operai si innalzavano in tutta la loro violenza visiva e fatiscenza sociale vicino alle ville faraoniche degli industriali, in una continua, perenne, “guerra sociale muta”. E questo, in Italia, accadeva solo nella nostra periferia veneto-friulana, così piccola, così colma di contraddizioni. Da dieci anni però è tutto cambiato. E ora la letteratura non può più rifarsi a un luogo preciso, ma unicamente a strutture sociali liquide.
Come spieghi l’assenza di informazione intorno alla condizione sociale dei tuoi personaggi?
Far cadere il silenzio sui poveri, sugli emarginati, sui ragazzi “problematici”, è sempre stato il primo obiettivo della politica, di qualsiasi politica reale. E’ il modo che ha il potere di imporre i propri interessi di parte, che sono da sempre in conflitto con i bisogni umani. Qui interviene la letteratura, l’arte in generale, per quello che può fare: rendersi portavoce di chi non ha voce, degli esclusi. La letteratura non salva, però avverte.
Secondo te qual è il ruolo che svolgono la solitudine e il dolore nei confronti dell’emarginato?
Si è emarginati in quanto soli, in quanto nessuno ci aiuta nel percorso di dolore. Emarginati, prima o poi, lo siamo tutti, anche i ricchi, anche chi si ritiene più fortunato. Quindi ci vorrebbe più attenzione, più umanità da parte di chi può dare. Una delle prime forme teologiche parlava di viaggio “ad infera” per tutti gli esseri umani, chiamati a percorrere al mondo, in questo mondo, un atto di dolore: la propria vita.
In questo periodo storico come può un bambino, o un ragazzo trovare un riscatto per se stesso, senza perdere l’identità?
L’unica forma di riscatto possibile è da sempre e per sempre la bontà, la bontà verso gli altri, donandola ognuno come può. Si deve dare, prima di chiedere. Si devono riconoscere i diritti altrui, prima di pretendere i propri. Si deve amare, prima di chiedere amore. Il riscatto proprio avviene quando si aiuta qualcun altro a riscattarsi.
Rispetto alle situazioni che hai descritto come valuti l’idea di una fuga?
Una “fuga” dall’Italia la valuto come positiva, per i ragazzi. Per i prossimi venti anni, almeno, l’Italia sarà un deserto, non solo economico, ma innanzitutto di valori.
Qual è il tuo libro più autobiografico?
“Viaggio nella notte”, escludendo il finale, ovviamente.
Rileggi i tuoi libri?
Sì. Li rileggo moltissime volte per riscriverli, in fase di stesura; e li rileggo moltissime volte durante le presentazioni. E’ un continuo frequentarli.
Che cos’è per te la scrittura?
Una continua visione di colori, immagini, un continuo sentire suoni. Una sorta di estasi, alle volte dolorosa, altre liberatoria.
Per concludere, cosa pensi dei blog letterari?
Un mezzo utile alla diffusione di romanzi e idee, quando sono blog seri. Un mezzo deleterio, quando vengono gestiti con leggerezza. Le parole, in qualsiasi forma vengano divulgate, sono importantissime. Sono le parole, a creare le persone. Mai il contrario.
Intervista a cura di Fabiano Naressi.