«Tanti uomini, altrettanti gridi diversi. … Quanti cinguettii differenti, quanti gridi discordanti in quella singola foresta chiamata società!». Sono parole che si leggono al primo paragrafo della Satira prima, e che subito vengono illustrate dalle singolari affermazioni di tutta una serie di personaggi. La vita in società non ha fatto uscire gli uomini dalla loro animalità. Diderot – o, più esattamente, la voce satirica che lo scrittore fa parlare – propone fin dall’inizio una constatazione desolante: il più delle volte l’uomo sociale è rimasto una bestia, non ha fatto altro che cambiare di foresta.
«Cinguettio», «grido»: basta pronunciarle, e le due parole valgono a dire il contrasto fra la durata di un canto disteso e la patetica brevità di un’esclamazione «animale». Contrasto che ritornerà, in forma più ampia e più libera, nella Satira seconda, nelle affermazioni del nipote di Rameau: questa volta, a proposito dei ranghi sociali. «È un cinguettio del diavolo, il mio. Un cinguettio balzano, per metà da gente di mondo e di lettere, per l’altra metà da gente di bancarella e di mercato»: secondo l’ammissione stessa dell’eroe, il suo è un parlare bipartito come bipartita era stata, in un’altra epoca, la tenuta vestimentaria del folle.
Il termine «cinguettio» è anche quello che Diderot sceglie per designare lo stile degli scrittori, e ciò che lo stile rivela delle loro disposizioni innate. Come esempi, fa i nomi di Buffon, di d’Alembert e di Rousseau. Li confronta: «Ecco tre stili ben diversi». Caratterizza rapidamente Buffon («largo, maestoso»), d’Alembert («semplice, chiaro, senza figura, senza movimento, senza estro, senza colore»), Rousseau, che Diderot ammira come grande «colorista» («tocca, agita, sommuove»). E Diderot aggiunge, con paragone insolito: «Non è dato a questi autori di cambiare tono più di quanto sia dato agli uccelli della foresta di cambiare cinguettio».
Senonché il «cinguettio» è soggetto a un’ambiguità di fondo, così etica come estetica. Ci si trova infatti lungo un crinale dove le voci e i dialoghi sono attribuibili sia a un’espressione libera, sia – al contrario – a un gioco regolato, a una lezione ripetuta come in uno spettacolo da fiera. Non per caso, nel Settecento, i difensori della natura e del naturale partono lancia in resta per combattere, simbolicamente, contro gli uccellatori e contro gli uccelli addestrati (a meno che gli opposti non vengano conciliati, facendo dell’uccellatore un «uomo della natura»: Papageno nel Flauto magico…).
L’uccello addestrato e il suo cinguettio diventano allora termini metaforici per additare certi bersagli polemici, e metterli in ridicolo. Da un lato, i devoti e le devote che pappagallescamente accettano le formule ripetitive della liturgia cristiana. Dall’altro lato, gli adepti della civiltà mondana, cioè di uno stile di vita del quale Diderot stesso, va pur detto, partecipava pienamente. Quante lezioni uno spirito come quello di Diderot era destinato a trarre dalla coincidenza fra la perdita della libertà, la reclusione in una voliera, e le raffinatezze della lingua!
L’immaginazione filosofica di Diderot non ha mai abbandonato il campo del sonoro per spingersi fino ai limiti di ogni spazio concepibile: ha fatto sempre come se la conoscenza dell’immensità del mondo fosse riservata al potere dell’udito piuttosto che a quello della vista. Né Diderot ha rinunciato a teorizzare le ragioni per cui, nei rapporti umani, ciò che risuona all’orecchio – suoni e rumori, mormorii e clamori – lo interessava così tanto. «Si può dire che le passioni stiano alla costituzione animale come le corde stanno allo strumento musicale»: per Diderot, la vita dei sentimenti si dispiega su un diapason estremamente ampio di sonorità.
Si aggiunga che il mondo messo in scena da Diderot nelle diverse sue opere vive di un repertorio particolarmente ricco di risorse sonore, che veicolano una gamma altrettanto variegata di «valori». È un mondo dove le categorie fisiche si mescolano e si rimescolano con le componenti sociali, producendo una pletora di suoni e di silenzi strettamente legati al corso degli eventi. Ma, più profondamente ancora, si direbbe che il senso stesso che Diderot ha della vita – e il senso che ha dello spettacolo – abbiano bisogno di questo elemento sonoro, che non possano farne a meno. Diderot è un improvvisatore, ma è anche un eccellente regista. Quanto più gli preme di sottolineare, è il modo in cui determinate pratiche di linguaggio diventano segni di riconoscimento per gruppi ristretti di individui: per «società scelte» dove si parla con disprezzo di ciò che è «ordinario», perché si insegue la «distinzione». Diderot lo spiega molto chiaramente nella voce «Gergo» dell’Encyclopédie: «La parola ha diverse accezioni. Significa: 1) un linguaggio corrotto, quale si parla nelle nostre province; 2) una lingua convenzionale, che alcune persone mettono a punto per comunicare in pubblico senza essere capite; 3) un certo qual cinguettio di società, che ha magari un suo gusto e una sua eleganza, ma che nella gente adusa alla mondanità rimpiazza lo spirito vero, il buon senso, il giudizio, la ragione, la conoscenza: speciali giri di frase, parole usate in modo strano, l’arte di nobilitare con una formula ricercata ideuzze fredde, puerili, comuni».
Il cinguettio è dunque un cattivo rimpiazzo, un surrogato, una perversione. Di chi la colpa? In quella stessa voce dell’Encyclopédie, Diderot non si sottrae alla risposta: «Più un popolo è futile e corrotto, più fa ricorso a un gergo». In questa accezione, il cinguettio non ha più nulla del canto naturale di un uccello libero. È il suono ripetuto da un uccello in gabbia che si è provveduto ad addestrare, un uccello che vive di «soffiate». Al limite, bisognerebbe spingersi fino a dire: è il suono ripetuto da una società dove si passa il tempo a farsi «soffiate» l’uno all’altro.
[Questo testo costituisce una versione abbreviata della prefazione di J. Starobinski, Diderot, un diable de ramage, Gallimard, Parigi, pagg. 420, € 22,00. La traduzione è di Sergio Luzzatto]