Dieci (e più) domande a Carla Manzon

Carla ManzonSiamo nel chiostro della biblioteca. I raggi smorzati del pomeriggio e un po’ di brezza danno sollievo a studenti trasognati che un po’ sfogliano appunti, un po’ parlano già del mare. C’è un’atmosfera flemmatica, serena. Devo lottare con il registratore del cellulare e devo chiedere a Carla di ripetermi la prima risposta. Un ampio sorriso, però, mi lascia intendere che non c’è fretta.

Chi o che cosa ti ha fatto capire di voler fare l’attrice?

Non c’è stato un qualcosa che mi ha fatto decidere di voler fare l’attrice. Ho cominciato per sbaglio, per caso, perché un giorno ho visto una locandina Pro Pordenone con su scritto “corso di teatro” – parlo del 1975, troppi anni fa –. Arrivata a casa, da buona adolescente poco inquieta, non avevo voglia di fare niente e allora ho detto: “Boh, provo”. Mia madre era d’accordo, così quella sera sono capitata in questa sede dove c’erano dei matti che facevano versi strani, una tipa faceva il pappagallo su una sedia… Ho pensato: “Mamma mia, dove sono capitata!”. Tornata a casa, ho giurato a mia madre che non ci sarei più andata, lei però ha insistito. La seconda volta c’è stato il colpo di fulmine e da lì non ho più voluto smettere di fare teatro: è stato come trovare l’uomo della mia vita.

Controllo che il cellulare non mi abbia tradita di nuovo. No, per fortuna. Seconda domanda.

Ispirazione: dove la trai, da chi, e quanto è importante nel tuo mestiere?

L’ispirazione? – ci pensa un momento ma poi la voce è sicura – È importantissima. Nel lavoro dell’attore è una specie di folgorazione in cui vedi il personaggio come un ologramma che si muove davanti a te – una specie di spirito shakespeariano, un’anima. Oppure nasce dallo studio approfondito dell’autore e del periodo storico. In quel caso è proprio un tarlo più che uno studio: un tormento, un lavorio continuo della mente e anche del corpo – qui sorride – A me è capitato tante volte di seguire delle persone per strada che secondo me avevano le caratteristiche giuste per interpretare un personaggio. Eh sì, tante volte arriva anche dall’osservazione della gente. È un lato affascinante del nostro lavoro.

Qual è il ruolo che vorresti o che avresti voluto interpretare?

I rimpianti sono tanti, purtroppo. Non ho mai avuto il privilegio di interpretare un personaggio di Goldoni né soprattutto uno di Shakespeare. Da giovane avrei voluto fare Puck, il folletto di Sogno di una notte di mezza estate oppure Ariel de La tempesta. Un personaggio affascinantissimo che forse potrei fare adesso, sempre di Shakespeare, è la regina Margherita, che è presente in ben quattro o cinque drammi storici. Un grandissimo personaggio.

Qual è la difficoltà maggiore dell’essere un’attrice?

Si fa pensierosa. Dopo qualche secondo…
Le crisi. La paura di non essere all’altezza del ruolo, la paura di affrontare diecimila persone da sola come mi è capitato a Siracusa. E poi le frustrazioni. Io ho sempre fatto ruoli di carattere e ogni tanto mi sono sentita un po’ limitata, avrei voluto fare dei ruoli da protagonista, anche se in realtà poi ne ho fatti e mi sono presa qualche bella soddisfazione. Infine ridacchia: E c’è sempre l’incubo di arrivare sul palco e non saper più la parte, ma poi non succede.

Preferisci buttarti e sperimentare nuovi ruoli o rimanere su quelli in cui ti senti più sicura?

Canticchia entusiasticamente: Sperimentare! Sperimentare assolutamente! È faticosissimo, ma io sono una persona inquieta e altrimenti poi mi annoio. D’altronde è il dovere di chi si avvicina al mondo del palcoscenico, quello di cercare, lottare, crescere continuamente: come diceva Eduardo De Filippo, gli esami non finiscono mai, e meno male! Se no che si fa nella vita?

Come è nata l’idea di lavorare con gli studenti? Cosa significa per te lavorare con loro?

Sorride.
Questa domanda mi piace molto. L’idea di lavorare con gli studenti è nata un po’ come un’alternativa, poiché con questa crisi e alla mia età non è molto facile trovare dei ruoli da interpretare in teatro; così ho iniziato a lavorare coi ragazzi sulla lettura di testi poetici e non. Per me lavorare con loro è una fonte inesauribile di apprendimento, di gioia, di libertà anche – spero di non parlare a vanvera. Cerco di comunicare loro la bellezza delle parole, le profondità analitiche di un testo teatrale o letterario…Così mi aiutano moltissimo ad imparare e di questo sarò sempre loro grata.

Parlando di viaggi, che per te sono fondamentali: qual è stato il tuo viaggio più significativo?

Ora che sto invecchiando, il muovermi da casa sta diventando sempre più faticoso, forse perché per molti anni a casa non ci sono stata a causa del sistema teatrale italiano. Adesso mi sto riposando. Però il viaggio è anche dell’anima: come dice Kavafis “si viaggia per scoprire sé stessi”. Il viaggio più formativo è stato 20 anni fa, quando sono andata da sola in Irlanda. Zaino in spalla, ho imparato una nuova lingua per sopravvivere e ho conosciuto gente meravigliosa. Ho camminato fino a logorarmi le anche – sono andata in pellegrinaggio fino alla casa di Daniel Day-Lewis! – ma ne è valsa la pena.

Sempre in tema di viaggi: qual è la meta che sogni?

Quest’anno volevo andare a Troia. Poi aggiunge, con aria nostalgica: Un altro viaggio che vorrei fare a breve è proprio a Itaca. Sarà che sto rileggendo l’Odissea talmente tante volte…Ogni volta che la leggo ai ragazzi scopro nuove chiavi, quindi Itaca sta diventando veramente una meta importante per me.

Parlando di Pordenonelegge: com’è nata l’idea delle letture con gli studenti? E come è stato scelto il tema di quest’anno?

È stata un’idea della prof Corelli e del prof Merisi, nata dopo aver fatto un laboratorio su Dante assieme alla compagnia teatrale Punto e a capo. Mi è stato chiesto di collaborare e io ho accettato con sommo entusiasmo. È stata una grande avventura, soprattutto il primo anno, perché i ragazzi hanno insistito per fare una lettura integrale della Divina Commedia e noi abbiamo dovuto, anche con gioia, assecondarli!
Il tema di quest’anno doveva essere Boccaccio, ma poi il professor Villalta ci ha quasi imposto una via poetica. Ci siamo arenati, perché ci sembrava troppo ardua a meno di non scegliere un altro poema. Dieci giorni fa, alla riunione, mi è venuto in mente il bellissimo libro di Sciascia, La scomparsa di Majorana…E poi come si fa a non amare Leopardi? È venuto da sé!

Complessivamente, qual è stata la reazione dei pordenonesi alla Giornata della Poesia di quest’anno?

Rispetto all’anno scorso, c’è stato più ascolto e anche i ragazzi lettori sono stati più soddisfatti. Tuttavia, di questi tempi, le orecchie e soprattutto i cuori della gente non sono propensi a fermarsi ad ascoltare la poesia. Io invece credo che vada ascoltata. Penso che, in questi tempi difficili, più che di economisti avremmo bisogno di poeti e di filosofi che ci diano nuove vie per l’anima.

Altre due domandine, approfittando dell’entusiasmo e della disponibilità di Carla:

Il libro che c’è sul tuo comodino adesso?

Un bel libro di Beatrice Masini, candidato al Campiello, che mi ha ricordato i romanzi delle sorelle Brönte. Parecchio intrigante. Poi ho appena iniziato La figlia, un romanzo di una certa Uson, che parla della figlia di Mladic. Promette bene, offre degli spunti interessanti. Infine un altro bellissimo libro di Rumiz, letto in tre ore, che è Tre uomini in bicicletta. Molto estivo ma ben scritto, con le vignette di Altan e consigliato a chi pratica questo sport.

Quanto frequenti la biblioteca?

Devo dire che la frequento poco, perché mi piace comprarli i libri, ma per me è un bel luogo di ritrovo per lavorare con i ragazzi d’estate!

(L’intervista è a cura di Claudia Vanelli).

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