Non sono un critico letterario, e so bene che l’ultimo romanzo di Jonathan Franzen è stato salutato da molti come una meraviglia, eppure c’è in “Freedom” qualcosa che non mi convince, quantomeno nella definizione di capolavoro, dove è implicito un valore perenne ed universale che, sarà limite mio, francamente stento a vedere.
Ecco quindi i tanto attesi Berglund. Non è facile parlare di loro, perché facile non è nemmeno l’ambizioso obiettivo che Franzen si è proposto, quello di rappresentare in un grande e complicato affresco l’America degli anni 2000, con tutte le sue contraddizioni e i suoi naufragi, politici e non. Patty e Walter (i Berglund, appunto) provengono da famiglie borghesi, frequentano il college (siamo agli inizi degli anni ottanta) si sposano, hanno due figli e vivono a St Paul, un gentrified neighborhood che serve all’uopo di un’ambientazione totalmente, esclusivamente borghese (siamo negli anni novanta), vivono periodi profondamente travagliati, fatti di tradimenti, depressioni, illusioni (siamo al giro di secolo), fino ad arrivare ad una rottura che pare definitiva e ad una finale, inaspettata (?) riappacificazione (e siamo ai giorni nostri).
Non entrerò ulteriormente nei dettagli della trama del romanzo per non rovinare il gusto della lettura ai tanti potenziali lettori che in questi giorni si affretteranno a comprare “Freedom”, ma in alcuni punti la mano di Franzen sembra guidata più dal bisogno di trovare una via d’uscita ad alcune situazioni, che a descriverle realisticamente (la drastica e repentina uscita di scena di un personaggio verso la fine, come dire, sounds fishy, è un po’ sospetta!) Ecco: realisticamente. É chiaro che il romanzo di Franzen vuole essere un romanzo realista, e in questo sicuramente ricorda la tradizione ottocentesca anglosassone, da Charles Dickens a George Eliot. Forse proprio per l’omogeneità dell’ambiente descritto, per la mancanza di personaggi minori e di una certa coralità è proprio a quest’ultima autrice che è più facile paragonarlo. Eppure sembra quasi (ma, ripeto, potrei proprio sbagliarmi) che nel gettare pennellate di colore di fondo sul grande affresco – 9/11 (poteva mancare?), la guerra in Iraq, Bush, l’Afghanistan, i movimenti ambientalisti – o di primo piano – Walter e le sue relazioni amorose con una donna di vent’anni più giovane, le cause sposate con dedizione totale, Patty ed il suo rovello di tradimento e redenzione, Joey e le sue oscillazioni tra l’amore –vero- per Connie e l’attrazione esclusivamente fisica per la bellissima Jenna (certe digressioni di natura scatologica erano proprio necessarie?) qualcosa si perda.
Al di là di questo, cosa ci vuole dire Franzen con il suo romanzo? Cos’è questa Freedom? Ce lo si chiede per buona parte delle quasi seicento pagine del libro, che è punteggiato qui e là dalla parola libertà, usata dai suoi personaggi o dal narratore stesso sia come indizio che come chiara rivelazione. Tutti (Walter e Patty, ma anche i figli Joey e Jessica, nonché l’amico Richard, e gli zii, i fratelli, i nonni e le generazioni precedenti fino a risalire agli avi scandinavi di Walter) sono alla ricerca della libertà, la hanno, la usano (a volte male), la perdono e la riguadagnano, lottando nel mare in tempesta della propria eredità genetica e delle esperienze inflitte dalla famiglia d’origine, elementi dai quali è quasi impossibile liberarsi. Conviene quietamente accettarli e conviverci, tornare a stringere rapporti anche con quelle persone che avevamo tenuto lontane da noi, perché esse sono noi, e tanto vale accettarle per quello che rappresentano. Perfino Richard, con il quale Patty tradisce Walter nel bel mezzo del romanzo (non vogliatemene, tanto è chiaro sin dall’inizio), torna ad essere il miglior amico di Walter nel finale, e tutto magicamente – un po’ troppo, a mio avviso – si riconcilia. Mi permetto un’ultima osservazione: leggendo “Freedom” mi sono spesso detta che non dev’essere stato facile essere Franzen dopo “Le Correzioni”, e gli eventi che da “Le Correzioni” in avanti si sono succeduti in America e nel mondo (primo fra essi proprio il 9/11, simbolo e climax del naufragio epocale nel quale siamo immersi) costituiscono uno scenario terribilmente complicato. Franzen ha il merito di essersi tuffato nel mezzo di tutto questo e di aver disegnato una serie di personaggi che attraversano quegli eventi con tutte le loro contraddizioni e i loro timori, sbagli e fragilità, dandoci un’immagine della realtà nella quale stiamo vivendo che può anche non piacerci, ma nella quale, se non sempre almeno parzialmente, dobbiamo riconoscerci.