Da qualche tempo a questa parte si torna a parlare in Italia con un certo interesse di Postmodernità. Lo si è fatto sui maggiori quotidiani, sul web, nelle riviste specializzate di cultura, società e politica come il Domenicale del Sole24 ore, oppure di filosofia come « Micro-Mega », « Alfa-beta ». Nel semestre scorso si è avuta a Londra al Victoria and Albert Museum una grande mostra internazionale dedicata completamente ad una ricostruzione di questo spazio culturale che avuto al suo esordio matrici differenti e che ha trovato risonanza a livello planetario in vari campi di applicazione.
Quando si parla di Postmoderno, più che di un solo argomento, ci troviamo di fronte ad una costellazione di concetti, anzi ad una vera e propria nebulosa semantica dagli incerti confini anche temporali, che cerchiamo di esplorare in questo ciclo di sette incontri, ma che ben difficilmente riusciremo a racchiudere in una visione unitaria. Del resto, questo non è nemmeno il nostro intento. Diciamo subito che il Postmoderno è un fenomeno culturale di matrice essenzialmente occidentale ed è tenendo in vista l’orizzonte della sua provenienza che esso viene affrontato nelle nostre conversazioni.
Con questo corso sul Postmoderno cerchiamo, attraverso alcune voci anche tra loro dissonanti, di circoscrivere la complessità di questo fenomeno culturale attraversando certe aree di interesse, dall’architettura alla deontologia della pratica medica, dalla letteratura alla psicoanalisi, dal linguaggio filosofico al mondo del cinema, considerandoli come tanti momenti problematici di quello scenario naturale che è stata la fine ‘900 al quale il postmoderno cronologicamente appartiene, anche se non sappiamo veramente se del postmoderno si può parlare al passato. Sono in molti a dire di sì, anche se per altri non è così ; perciò, la questione resta controversa.
La proposta di questo corso sul postmoderno nasce anche da una riflessione critica intorno al compito formativo della parola dell’insegnamento e da una rivalutazione dei luoghi della sua vocazione pubblica, nell’epoca della delegittimazione generalizzata della magistralità sapere e degli ideali universali.
La collaborazione tra il Liceo Leopardi-Majorana e la Biblioteca Civica di Pordenone è un esempio importante e l’occasione felice di un confronto tra interlocutori diversi intorno ad un tema della nostra attualità, per mettere in luce la complessità del clima culturale contemporaneo, venendo incontro anche all’esigenza di arricchire con spunti inediti gli stessi programmi disciplinari, introducendo argomenti culturali poco frequentati e che non si riesce sempre ad affrontare in classe.
Si potrebbe dire che la complessità è la cifra ricapitolativa del postmoderno. La prospettiva del meticciato delle discipline derivante da un uso indiscriminato e arbitrario della citazione culturale, la fine del confine tra i campi del sapere e il “nomadismo” delle teorie, rappresenterebbero una chiave di lettura tipicamente postmoderna dei processi della conoscenza.
L’affermarsi della categoria della “complessità” è proporzionale alla insofferenza contemporanea del discorso filosofico di organizzarsi attorno ad una sintassi rigida e ad un centro per raccogliere la disseminazione del molteplice dell’esperienza. La complessità indicherebbe così nel postmoderno l’impossibilità della cultura contemporanea di trovare un principio orientativo trascendente che ordini in modo simbolico la dispersione e la fluidità delle componenti culturali; non per caso il postmoderno è motivato da una spiccata preferenza per il contingente, il localistico, il curioso, l’occasionale, l’aleatorio e il pittoresco ridotti ad episodica emergenza, degni solo di una attenzione effimera senza finalità. Di qui la difficoltà di governare l’indeterminazione dell’evento, la cui leggibilità non cade sotto una legge, ma viene vista come il caso che alimenta l’insorgenza del mutamento imprevedibile, sotto il segno della contingenza. L’attenzione si sofferma allora solo sulla performans delle prestazioni in esercizio che appaiono nella loro pura attualità sotto il segno della pura riuscita. Non per nulla la parola d’ordine nella stessa valutazione postmoderna dei comportamenti etici è ancora una certa idea di successo realizzativo come mero effetto pragmatico senza idealità.
E’ noto che il temine “postmoderno” non nasce come un topos filosofico. Non ha originariamente una matrice teoretica. Storicamente, le sue motivazioni culturali hanno una radice “regionale” che vanno situate in un contesto disciplinare preciso, quello della architettura e della letteratura americane dove il termine se pure inizia a circolare molto presto, addirittura già dagli anni Trenta, si afferma decisamente solo negli anni Sessanta e Settanta adottando perfino una data di nascita simbolica ufficiale. Non è casuale che sia questo il primo impatto che noi abbiamo del postmoderno a livello più generale : il postmoderno appare dapprima attraverso una dimensione estetica, quella visiva e sensibile dell’immagine che è la più immediata a colpire la nostra intuizione.
La Prof.ssa e Architetto Sara Florian dando inizio al corso, affronterà precisamente l’esordio del postmoderno estetico in arte e in architettura., come luoghi generatori di una inedita temperie culturale.
Circolato soprattutto negli ultimi decenni del ‘900, il termine compare tuttora per evocare una provocazione di ampia portata che parte come carattere estetico per divenire poi un atteggiamento anche sociale, diventando perfino un clima, una koiné linguistica, una stagione teorica della discussione sui fondamenti, una mentalità politica, e anche una moda, oltre che una visione del tempo ; tanti volti differenti che insieme hanno finito per ridefinire lo statuto della trasmissione del sapere, le pratiche di formazione educativa della soggetto e perfino del suo inconscio, oltre che del valore etico dell’istituzione della comunità.
La controversa vicenda del Postmoderno si fa strada da un dibattito che ha molte sfaccettature. Ma in sede specificamente filosofica prende avvio alla fine degli anni ’70, quando viene pubblicato in Francia un libretto fortunato, un pamphlet intitolato La condizione postmoderna di un autore chiamato Jean-François Lyotard ; il testo trova subito rispondenza in Europa e in particolare in area tedesca, dove incontra interlocuotori disposti a discuterlo, come per esempio Jurgen Habermas un erede della Scuola di Francoforte, per poi a trovare dei continuatori favorevoli in ambienti universitari ad indirizzo umanistico come in America e Italia che risentono dell’influsso intellettuale francese, mi riferisco soprattutto a Richard Rorty e a Gianni Vattimo.
In particolare, Lyotard chiama « condizione postmoderna » quella situazione della vita culturale, sociale e politica, in cui i discorsi e i saperi smettono di essere dei grandi racconti, cioé delle visioni generali, delle prospettive ideali universali, delle meta-narrazioni, come l’Illuminismo, il Marxismo, il Cristianesimo, il Positivismo e il Socialismo, l’Idealismo, i principi guida di una serie di prospettive, che a partire dall’epoca Moderna sono state orientate da disegni escatologici e finalistici, entro cui inscrivere e interpretare l’accadimento dei fatti, le vicende umane, le scelte etiche e le aspirazioni che danno senso all’esperienza quotidiana.
Perciò, quando si parla di una posteriorità del mondo moderno, non si può non toccare la questione dell’Illuminismo, non si può non citare il quadro di valori e delle sue promesse più o meno mancate, cioè della sua eredità ; argomento tutt’altro che marginale, perché pone in campo un confronto dialettico sui principi tradizionali e occidentali di umanizzazione dell’uomo, sulla emancipazione che ne accompagna l’ideale politico come processo di autodeterminazione, nella libertà del singolo contro ogni assogettamento. La questione dei diritti, della democrazia, dell’uguaglianza, della libertà, della partecipazione e della cittadinanza nella societa multietnica, della richiesta di benessere e di salute e del senso della vita, tenuto conto dei problemi di sostenibilità ambientale in quello che è il rapporto tra demografia e sfruttamento delle risorse naturali, l’ecologia e la perseguibilità del benessere diffuso tra costi e benefici, sono tutti argomenti all’ordine del giorno, oggi più che mai.
Una delle domande chiave chiave che guidano un teorico come J-F.Lyotard nella considerazione sul postmoderno è : « possiamo oggi continuare a organizzare la folla degli eventi che ci vengono dal mondo, umano e non umano, ordinandoli sotto l’idea di una storia universale dell’umanità ? ».
Il problema, in questo caso, prima di dare una risposta, è in fin dei conti quello di sapere o di decidere se esiste ancora qualcosa come una “storia umana” in cui inscrivere il riconoscimento del significato di una trasmissione attraverso la quale elaborare qualcosa come un’ “identità culturale” dei parlanti, l’idea e soprattutto la realtà, di un Noi. « La domanda chiede se questo noi è o non è indipendente dall’idea di una storia dell’umanità» .
Nel postmoderno d’altra parte, il tempo è un’esperienza che smette di avere un disegno orientativo, perché una volta liberato dall’escatologia religiosa con la demistificazione razionalistica e moderna del mito, l’esperienza del cambiamento viene vista solo come attualità, come “ontologia del presente”, che pretende non di avere un futuro e nemmeno un passato, ma solo di accadere. Nel postmoderno, l’esperienza del tempo cessa di fornire una direzione, perde il suo télos e diventa pura forza trasformatrice di un mutamento in gran parte tecnico-strumentale che ricomincia dal proprio inizio e che ricade interamente su se stesso, nel mero presente; la temporalità nel postmoderno è vissuta totalmente nell’ immanenza del puro evento, senza riferimento a giudizi di valore, perché per la cultura postmoderna ogni fatto non si inscrive in un destino da realizzare; essa ha volutamente liquidato il richiamo ogni garanzia trascendente dell’esperienza. Alla storia concepita come vicenda destinale, caratterizzata dall’attesa e dalla speranza, il postmoderno sostituisce la temporalità autoreferenziale dell’atto contingente, come tappa da bruciare, che si accende e spegne, senza nostalgia.
Per questo motivo, il post-di postmoderno, come dice Gianni Vattimo, «indica(…)una presa di congedo dalla modernità che(…)vuole sottrarsi alle sue logiche di sviluppo, e cioè anzitutto all’idea del ‘superamento’, perché quel che qualifica l’esperienza temporale postmoderna è appunto, nel suo congedo dalla modernità, la sua “immobilità realmente non-storica»
e dunque l’abbandono del concetto stesso di “destino”. Se il senso del tempo comincia d essere misurato solamente attraverso il ripetersi (il ritorno) del “culto del nuovo”, la storia non può che erodere il suo stesso terreno, nella stessa misura in cui la tradizione del passato che il nuovo ogni volta cancella, perde il suo valore di promessa e di attesa. Così la fede nel progresso si identifica puramente con l’attualità, e il tempo appare come un fatto sempre più guidato e sottoposto all’accelerazione istantanea che non può che comportare la cancellazione del nuovo appena sopraggiunto.
Lyotard legge e analizza la trasformazione del sapere in accelerazione nel secondo ‘900, in base ad un’analisi che investe la trasformazione tecnologica dei sistemi comunicativi, sottoposti all’informatizazione generalizzata. La società postmoderna dominata dalla comunicazione diffusa, è chiamata non per caso “trasparente” da Gianni Vattimo per il quale, «Di fatto, l’intensificazione delle possibilità di informazione sulla realtà (…) rende sempre meno concepibile la stessa idea di una realtà(…). Realtà per noi, è piuttosto il risultato dell’incrociarsi, del contaminarsi (…) di molteplici immagini, interpretazioni e ricostruzioni che, in concorrenza tra loro o comunque senza alcuna coordinazione ‘centrale’, i media distribuiscono ».
Di qui il fenomeno ad un tempo estetico e sociale della “derealizzazione”, da intendersi come dissolvenza della consistenza oggettiva del mondo che si darebbe a noi e alle nostre interpretazioni, nella sua dura resistenza. Vi è una portata liberatoria secondo Vattimo in questa derealizzazione o dissoluzione della realtà, perché su questa piattaforma girevole della interpretazione di tutto, si attua per lui la proliferazione delle prospettive e perciò la differenziazione orizzontale dei poteri, senza ordini superiori oppressivi; ciò produce la dissoluzione dei punti di vista centrali e imperialistici e dunque degli ordini metafisici che ne sono la garanzia ; i linguaggi mass-mediatici e informatici, certo nessuno li demonizza più perché sono non solo indispensabili, ma tutti compossibili elementi di un mondo che fa esplodere la consistenza monolitica di un reale presunto dato là fuori, orizzonte massiccio che appare uniforme per tutti.
La dimensione del sapere perde la sua forma sistematica per assumere col postmoderno quello del rizoma, di una trama senza centro, fatto solo di rinvii e di ritorni, dove le informazioni circolano con una temporalità senza tempo, senza regola d’ordine, a trecentosessanta gradi.
Nella informatizzazione generalizzata del mondo, si attua la profezia di Niezsche per la quale “il mondo vero è diventa favola”.
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La Postmodernità che si afferma in particolare in architettura intende essere una protesta sociale ed estetica molto ampia contro la modernizzazione intesa come costruzione di una impersonale razionalità burocratica dell’abitare; il postmoderno architettonico si pone infatti contro l’emarginazione delle culture locali ad opera di progetti urbanistici ideati su grande scala, progetti che in base ad uno stile strettamente funzionale, omologatore nelle soluzioni, conformista nel gusto, erano solo desiderosi di imperare sul piano internazionale. L’architettura postmoderna cerca invece nella sperimentazione e nella ricerca del dettaglio creativo, tipico di ciò che si manifesta come sorprendente, singolare e curioso, un contesto localizzabile, che abbia il tratto del curioso, una combinazione inusuale delle forme, un quadro estetico volutamente complesso, riadattando la funzionalità dello spazio fisico e ambientale, attraverso l’accostamento imprevedibile di motivi storici e artistici eterogenei.
Il postmoderno artistico non vuole definire perciò univocamente la propria identità culturale, rinuncia alla compiutezza organica della forma, della perfezione e della costruzione, rifugge dalla linearità dei volumi tipica del razionalismo, evita i principi ordinati della regolarità di un progetto, ma utilizzando la pluralità dei modelli, la contaminazione e l’interazione degli stili e dei linguaggi, fa intervenire la citazione a sproposito e il frammento, quali moventi della propria realizzazione stilistica, senza offrire perciò una direzione identificabile o riconoscibile alla propria possibilità espressiva. L’architettura postmoderna è volutamente straniante, ambigua, disarmonica, distorta, poiché appronta la sua tecnica di progettazione utilizzando indifferentemente codici tra loro irriducibili, che non convergono mai attorno un centro, mentre rifiuta ogni pianificazione.
Una delle differenze fondamentali tra moderno e postmoderno in campo architettonico, è proprio quella di aver abbandonato l’ideale di costruire spazi e luoghi rispondenti alla forma pura razionale, leggibile secondo un ordine rigoroso e incolore e di aver perciò introdotto o meglio, coinvolto il dettaglio del vissuto personale, il sentimento emotivo del fruitore, la sua condizione esistenziale e la stessa pulsionalità imprevedibile dei bisogni, dei desiderata degli uomini destinati ad abitarli. L’architettura postmoderna si oppone così ad una logica severa della semplicità della costruzione che risponde ad esigenze esclusivamente funzionali come quelle che appaiono nell’estetica della tecnica modernista. Le costruzioni moderniste non si preoccupano di collegarsi favorendo il contesto in cui sono inserite, cercano invece di marcare il distacco visibile dall’ambiente circostante come segno di rottura storica con la tradizione e con il passato. « Questa astrattezza, osserva Chiurazzi, era il risultato della pretesa universalistica e cosmopolita del modernismo: si trattava però di un cosmopolitismo attuato a prezzo di una uniformizzazione che azzerava tutti i codici tradizionali e locali sconfinando nell’anonimato »
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Il carattere anonimo delle costruzioni moderniste è del resto il risultato di questo astrattismo erede del progetto illuministico che contrappone la modernità al gotico, al manierismo, al barocco, ai quali invece il postmoderno si richiama esplicitamente. Ciò spiega anche perché nell’estetica del postmoderno, la citazione, l’ornamento e l’assemblaggio talvolta equivoco, prevalgano su ciò che descrivono e divengono le parole d’ordine di tutta l’esperienza della creazione, in particolare in architettura e nel design. Il suo credo è sì quello di deangolare, disorientare, depistare, i contenuti dell’esperienza estetica stessa, ma non per riorientarla altrimenti secondo idealità nuove, ma per cancellare il principio spaziale e temporale di ogni direzione, tutte le relazioni possibili tra originale e derivato, copia e modello, tra primario e secondario, tra sopra e sotto, tra antecedente e conseguente. Il suo sguardo non è e non vuole più essere descrittivo, perché non è più simbolico e nemmeno nostalgico nei riguardi di una realtà presunta primitiva, cui attingere l’essenza della propria verità. Ed è per questo che il postmoderno estetico è irriverente rispetto il concetto di autenticità dell’origine. Esso è più semplicemente indifferente a ogni giustificazione che si volga ad una ricerca della fonte primitiva e del fondamento; il suo statuto più proprio è quello del simulacro che non è né icona né visione. Come osserva Mario Perniola, « il simulacro è un’immagine priva di prototipo, l’immagine di qualcosa che non esiste ».
Il simulacro non è cioè una copia di un modello, l’immagine di un esemplare; esso non si appella ad alcuna mancanza da desiderare o colmare, ad alcuna legge da rispettare o significante da esibire: esso è pura presenza a se stesso che ritorna eternamente al suo posto e che esclude nella sua riemergente – ma altrettanto casuale- eventualità, l’ipotesi di una prima volta (o all’opposto, dell’ultima volta). La creatività straniante dell’ auto-citazione che caratterizza la “logica” del simulacro, sorge senza nostalgie temporali o profondità spaziali per le sue fonti: essa preferisce restare un’esperienza priva di presupposti, insediata sulla visibilità istantanea ed esemplare che non suggerisce un riposto “voler-dire”, un recondito e più autentico significato da cercare nel sottosuolo inespresso di ciò che appare visibile.
Quella del simulacro è un’immagine senza identità, che rifugge tentativi referenzialie e corrispondenze con la verità. Il suo è un aspetto del tutto aderente al piano di realtà in cui trova manifestazione esplicita. Come osserva Maurizio Ferraris, la dimensione estetica del postmoderno
« è quello del simulacro che è al di là della verità e della menzogna, in quanto l’immagine di cui si avvale «non deriva dallo storpiamento derisorio dell’origine (…), bensì invece sorge senza intenti parodici o critici sull’assenza dell’origine; il simulacro è potente e vero non perché sia degradato o falso, ma perché esibisce senza fremiti e nostalgie il semplice funzionamento della metropoli come terreno nomade di un’erranza priva di Grund e di télos: un entretien infini, un νόστος che invece di ricondurre ai divini o alla terra ricade sempre sulla superficie metropolitana».
Flavia Conte