“Stiamo formando persone che non vogliono pensare, vogliono solo un lavoro”

internazionaleQueste le parole del Nobel James Watson, che aggiunge: “invece di cercare di sfornare più scienziati o ingegneri, dovremmo concentrarci sulla formazione di menti agili“. [L’articolo]

 

 

 

 

 

Dall’ultimo numero di Internazionale, un interessante spunto di riflessione.

 

Claudia Vanelli

“Il latino è inutile…”

LatinoVorrei condividere queste righe di Seneca, tratte dalla Consolatio ad Marciam, che ho appena letto dal libro di letteratura latina. Seneca consola una donna che non si rassegna alla morte del figlio e vuole muovere una riflessione sul tema del suicidio e della morte.
Trovo la saggezza di Seneca rassicurante. Soprattutto quando tratta di temi così importanti che la loro mole sovrasta totalmente una diciottenne come me, che ancora non sa niente della vita. Ma proprio per la difficoltà di certi argomenti, trovo utile leggere ciò che ne pensano i grandi filosofi, che su di essi hanno meditato a lungo.
Pubblico questo brano perché, giunta ormai all’ultimo anno, mi sono resa conto che una parte enorme di ciò che ho studiato negli scorsi l’ho rimossa e trovo ciò immensamente triste. In molte opere camuffate da libri di scuola c’è una straordinaria bellezza e una straordinaria utilità che spessissimo ignoriamo.

“Che cosa, dunque, ti addolora, Marcia? Il fatto che tuo figlio è morto o il fatto che non è vissuto a lungo? Se è il fatto che è morto: allora avresti dovuto piangere sempre, perché hai sempre saputo che doveva morire.
Pensa che il morto non prova alcun male, che sono solo leggende quelle che ci rendono terribile l’aldilà; nessuna tenebra circonda i morti, nessun carcere, nessun fiume di fuoco, nessun fiume Lete, e non ci sono tribunali, e accusati, e tiranni in quella libertà così completa: sono i poeti che hanno inventato tutto questo e ci hanno spaventato con paure senza senso.
La morte è la liberazione da tutti i dolori, il termine oltre il quale i nostri mali non possono andare; essa ci riporta alla tranquillità, in cui eravamo prima di nascere. Se si ha compassione dei morti, si deve avere compassione anche di chi non è nato.
La morte non è né un bene né un male. Infatti può essere bene o male solo ciò che non è qualcosa: ma ciò che non è nulla in sé, e tutto riduce al nulla, non può procurarci nessuna conseguenza: i mali e i beni operano su una materia. […]
Una pace grande e eterna lo ha accolto [suo figlio]. Non è più tormentato dal timore della povertà, dalla preoccupazione della ricchezza, dagli stimoli della passione che, col piacere, rovina l’animo; non è più tocco dall’invidia per la fortuna altrui, […] Non vede catastrofi pubbliche o rovine private. Non è più preoccupato dal futuro, legato a un risultato che promette cose sempre più incerte. Infine è una posizione, da cui nulla può scacciarlo e dove nulla lo può spaventare. […] La morte scioglie dalla schiavitù anche contro il volere del padrone; essa allenta le catene dei prigionieri, fa uscire dal carcere chi ne era impedito da un potere tirannico, […].”

Ci tengo a precisare che il mio non è un invito al suicidio. Ho pensato che questo brano potesse essere utile a coloro che hanno subito una grave perdita e non riescono a farsene una ragione, perché  il loro pensiero fisso è un aldilà che non ci è possibile conoscere. D’altronde, l’intento principale di Seneca era di invitare Marcia a reagire con forza d’animo ad un lutto familiare, proponendole una visione dei fatti che non la facesse soffrire e le permettesse di continuare a vivere serenamente il resto dei suoi giorni.

Claudia Vanelli

Una pagina che mi ha cambiato la vita: L’infelicità perfetta non esiste – Antonella Polesel

Foto CategoriaUna pagina che ti ha cambiato la vita, mi è stato chiesto. Bella domanda…
Siamo quello che mangiamo, ripeto sempre ai miei studenti. E quante pagine ho mangiato! fin da piccolissima, quando sputacchiavo la pastina sul libro di Cappuccetto Rosso. E poi, bambina, nei miei nascondigli segreti, rintanata con avventure di pirati e cavalieri. E poi più grandicella, a farmi rimproverare dal papà perché leggevo invece che guardare il viaggio dal finestrino. O quando mi svegliavo alle cinque, d’estate, a godermi la frescura e le allodole con i libri di fate. E poi adolescente, a divorare romanzi dell’Ottocento appollaiata sulla conigliera dei nonni, celata dai rami bassi del tiglio. O a viaggiare per la Grecia con il libro delle tragedie. E poi e poi e poi… se siamo quello che mangiamo, ogni pagina mi ha cambiato la vita ed è responsabile di quello che sono.
Ho vissuto molte vite oltre alla mia, ho cercato risposte, ho trovato domande, ho intravisto fari di orientamento e modelli di comportamento.
E allora, per decidere qual è LA pagina che mi ha cambiato la vita, ho cercato nel cuore del problema dei problemi: la possibilità di convivere con la sofferenza umana. E ho voluto rendere un tributo al senso di sollievo che ho provato leggendo le parole di chi più che mai nella sofferenza umana era stato immerso fino alle ossa, eppure ne aveva ricavato una morale semplice: come la felicità perfetta non è realizzabile, così non esiste neanche un’infelicità perfetta. E non perché siamo eroi, ma perché siamo finiti, e niente che sia infinito ci appartiene.
È una morale piccola piccola, che accetta le nostre miserie e la nostra capacità di attaccarci alle piccole cose. È la capacità di sopravvivenza non già dei grandi uomini, ma “di un comune campione di umanità”. È la semplice consapevolezza che possiamo non farci schiacciare dal dolore del mondo, e neanche dal nostro, e che non dobbiamo sentircene in colpa.
È lo stesso sollievo che sento leggendo il Vangelo, il libro degli umili. Quei poveri discepoli che non capiscono niente, i bambini, i peccatori, le donnacce, perfino Pietro rinnegato. Lì i conti non tornano: gli operai dell’ultima ora vengono pagati come quelli della prima, si amano i nemici, si invitano a nozze i barboni. Eppure capisci che va bene così, la vita che ti piace è quella lì, e tu non sei diverso.
Quello che mi ha cambiato la vita è stato qualcosa che ha bilanciato l’effetto schiacciante della mia educazione: nell’ansia da prestazione che mi era stata inculcata, nel senso del dovere, nell’urgenza di fare qualcosa per “salvare il mondo”, queste parole hanno aperto una breccia nella disperazione del “non ce la farò mai” e hanno lasciato la pacatezza del “ce la farò a vivere momento per momento” sostenuta da “questo insensato pazzo residuo di speranza inconfessabile”.
“Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali, che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza.
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Smisurata preghiera

Qui non viene data integralmente la preghiera di Maqroll il Gabbiere. Abbiamo riunito solo alcune delle sue parti più salienti il cui uso quotidiano raccomandiamo ai nostri amici come antidoto efficace contro l’incredulità e la gioia immotivata.

Diceva Maqroll il Gabbiere:

Signore, perseguita gli adoratori del serpente lascivo!

Fa che tutti concepiscano il mio corpo come una fonte

inesauribile della tua infamia.

Signore, secca i pozzi che stanno in mezzo al mare dove i

pesci copulano senza riuscire a riprodursi.

Lava i cortili delle caserme e vigila sui neri peccati della

sentinella. Genera, Signore, nei cavalli l’ira delle tue

parole e il dolore di vecchie donne senza pietà.

Smembra le bambole.

Illumina la stanza del pagliaccio. Oh Signore!

Perché infondi quell’impudico sorriso di piacere nella

sfinge di stracci che predica nella sala d’aspetto?

Perché hai tolto ai ciechi il bastone con cui laceravano la

densa felpa del desiderio che li assedia e li sorprende

nelle tenebre?

Perché impedisci alla selva di entrare nei giardini e di

divorare i sentieri di sabbia percorsi nelle sere di festa

dagli incestuosi, dagli amanti attardati?

Con la tua barba da assiro e le tue mani callose, presiedi,

Oh fecondissimo! la benedizione delle piscine

pubbliche e il conseguente bagno degli adolescenti

senza peccato.

Oh signore! accogli le preghiere di questo scrutatore

 supplicante e concedigli la grazia di morire avvolto

 nella polvere delle città, addossato alle gradinate di

 una casa infame e illuminato da tutte le stelle del

 firmamento.

Ricorda Signore, che il tuo servo ha osservato pazientemente

le leggi del branco. Non dimenticare il suo volto.

Amen.

(da “Gli elementi del disastro”)

Ho cominciato a conoscere questo scrittore attraverso il suo splendido romanzo La neve dell’ammiraglio, uscito con Einaudi. Màrquez ha detto che secondo lui è il migliore scrittore sudamericano vivente. Alvaro Mutis è un po’ lo scrittore della scommessa, della sfida. Il personaggio principala della Saga di Maqroll il Gabbiere, Maqroll appunto, sembra dirci che le difficoltà vanno affrontate attraversandole perché un uomo possa diventare un uomo, o meglio quello che noi intenderemmo essere un uomo, fino ad affrontare la peggiore di tutte che è poi la morte. Maqroll attraverso la penna di Mutis, sembra dirci che superando la paura, il timore della morte, si diventa immortali. Naturalmente senza andarsela a cercare, ma neanche rifuggendone. L’unico timore che dimostra di avere Maqroll di fronte alla morte è quello di farla senza stile.