Un’amicizia d’acciaio, che si piega, ma non si rompe – Intervista a Silvia Avallone

silvia-avallonePiombino, via Stalingrado. Una realtà cruda e fredda dove dominata dal colosso siderurgico della Lucchini, fabbrica attorniata dagli squallidi casermoni grigi dove vivono gli operai e le loro famiglie.
Anna e Francesca, le protagoniste del romanzo, nonché migliori amiche da una vita, sono adolescenti, belle, provocanti, e stonano con la famiglia nella quale sono nate. Francesca vive con un padre-padrone che la spia attraverso un binocolo quando è in spiaggia e una madre piuttosto giovane, ma “invecchiata” dalla vita, che non ha mai preso una decisione. Anna ha una madre impegnata in politica, un padre piuttosto assente, mezzo delinquente che mira al lusso; suo fratello, Alessio, ruba e spaccia droga per arrotondare lo stipendio della Lucchini.
Anna e Francesca sono cresciute insieme tra i casermoni di via Stalingrado, con il sogno di andare all’Elba, come fanno i turisti delle grandi città. Sono uguali, ma diverse. Sono come sorelle in pieno cambiamento adolescenziale. Un amore arriva, sconvolge la vita di Anna e fa sanguinare l’amicizia tra le due ragazze fino a lacerarla. Quando si separano per un po’, Francesca trascorre molto tempo con Lisa, considerata il “brutto anatroccolo” del quartiere, mentre Anna consuma le sue giornate con Mattia, il suo fidanzato. Entrambe però capiscono presto che nessuno avrebbe mai potuto sostituire la loro amicizia. Avevano tanti progetti insieme, era ora di iniziare ad attuarli.
Quanto le è vicina la realtà dura e difficile da lei descritta nel suo libro?
Sono nata e cresciuta in provincia, ho vissuto prima a Biella poi a Piombino: entrambe città industriali che negli ultimi anni, o meglio decenni, hanno conosciuto gli effetti della crisi cha ha colpito l’industria italiana. Mi sento legata da sempre alla realtà difficile del lavoro in un momento in cui le fabbriche stentano ad aprirsi un futuro. In particolare, sono sempre rimasta affascinata, sin da bambina, dalla grande acciaieria Lucchini, che dall’esterno mi ha colpita per la sua imponenza. Con il tempo ho avuto modo di conoscere ragazzi che ci lavoravano, ho ascoltato le loro storie, e da queste sono partita per scrivere “Acciaio”. Scrivendo, ho cominciato anche a documentarmi sul ciclo integrale della produzione di acciaio, e su tutti i pericoli e i problemi connessi a un lavoro così duro. Sono rimasta colpita dai rischi che corrono le persone in simili fabbriche, ma anche dalla grande dignità e solidarietà che legano gli operai che ci lavorano. Ho ritenuto che questo fosse un mondo prezioso da raccontare, che dovesse essere raccontato anziché lasciato nel silenzio, e che avesse molto da insegnare. Specialmente alla mia generazione, e a quelle venute dopo di noi. Ho voluto raccontare anche come si cresce in provincia. Piombino è un luogo reale, ma via Stalingrado e le vicende ambientate qui sono universali e si trovano ovunque, non solo in Italia. Spesso in provincia è più difficile fabbricarsi sogni e speranze, eppure questi sono anche i territori dove spesso si trovano più energie, più potenzialità, più voci desiderose di essere ascoltate. Raccontarli è stato un modo per cercare di attrarre attenzione su di essi.
La scelta del titolo “Acciaio” è solo riferita alla fabbrica siderurgica o esistono altre ragioni?
L’acciaio è una materia che di per sé ha un fascino particolare: è la più dura e resistente al mondo, non esiste in natura ed è opera dell’uomo. La maggior parte degli oggetti che utilizziamo, dalle rotaie alle auto alle posate, è fatta di questa materia. Nello stesso tempo, l’acciaio è anche una lega, ha bisogno di due elementi per esistere. Nel romanzo, non solo Anna e Francesca, ma anche tutti gli altri personaggi non sono mai soli, ma sempre legati a qualcun altro. Non sono degli “io”, ma dei “noi”. Questo è un altro motivo, il più forte, per cui ho scelto il titolo “Acciaio”.
Continua a leggere

“La Città Dei Ragazzi”: il viaggio in Marocco di chi ce l’ha fatta per scoprire e scoprirsi

LaCittaDeiRagazziE’ un libro che cattura, scaraventa il lettore in una realtà difficile: la vita di alcuni ragazzi stranieri figli della povertà e della guerra, che riescono a sfidare l’impossibile e, quasi grazie ad un miracolo, sono arrivati qui, nella Città dei ragazzi, conquistando forse il gradino più alto: la vita, in cui la cosa strana è che se non vieni accettato da nessuno, rimani isolato. Ma questo non è il loro caso.
Il romanzo racconta il viaggio in Marocco dello scrittore con Omar e Faris per ritrovare le loro famiglie. Un viaggio che metterà in luce la povertà dei due ragazzi, le condizioni di disagio che li hanno portati in Italia. Affinati rappresenta l’unico punto fermo delle loro vite travagliate attraverso  l’educazione che è intesa come un cambiamento per l’individuo. Egli li ha accompagnati alla ricerca delle loro radici.
L’autore parla del rapporto burrascoso con il padre e frammenta storie di giovani immigrati illegalmente, distinti dalle loro particolari personalità.
In questo romanzo vengono messi in luce i valori della famiglia, del ruolo del maestro che per i ragazzi è Eraldo Affinati, della figura paterna, dell’insegnamento, e ci domanda cosa sia più importante tra il rimanere ancorati alle proprie origini e al passato o l’iniziare una nuova vita migliore e diversa.
Quale di queste tematiche è per lei la più importante?
Direi che il tema prevalente potrebbe essere quello delle radici spezzate. I ragazzi che vengono da altri mondi sono costretti a vivere coi piedi in due staffe: la cultura da cui provengono e la nostra. In più c’è il trauma che hanno vissuto. Infine la potenza del viaggio da loro compiuto. Ma queste tematiche sono filtrate dalla storia, altrettanto difficile, del narratore, il quale si rispecchia nelle vicende dei suoi studenti fino al punto di riconoscersi in loro.
I suoi studenti sono solo i protagonisti di questo libro o ne sono stati anche i primi lettori?
Alcuni di loro, come avete visto, hanno anche scritto delle parti del libro. Quando il romanzo venne pubblicato non erano ancora in grado di leggerlo. Lo hanno fatto negli anni successivi. Ancora oggi qualcuno mi telefona per dirmi di essersi riconosciuto in questo e quel personaggio e mi racconta la sua vita.
Continua a leggere

10 Italiani che hanno conquistato il mondo – Intervista a Simone Marcuzzi

Il nuovo libro di Simone Marcuzzi è una raccolta di dieci racconti su dieci italiani che hanno reso famoso il nostro Paese nel mondo o che ne hanno saputo incarnare gli umori, un’epoca. Tema impegnativo, che l’autore ha saputo declinare in modo intelligente e personale, legando le dieci figure al suo vissuto privato, in modo che esse si possono ritrovare nelle pieghe di ogni giorno. Così, per esempio, la citazione dantesca Ce fastu? diviene una scritta osservata nei pressi del parcheggio aziendale prima di un colloquio di lavoro, Rita Levi Montalcini è l’infermiera che rianima Simone dopo lo svenimento da fobia della siringa, la croce di Juri Chechi è l’antidoto alla malinconia adolescenziale.

Il proemio dell’opera è nel segno dell’acqua, che costituisce una sorta di dichiarazione di poetica. Lo scrittore Marcuzzi rivela al lettore di essere indeciso se accettare di scrivere i dieci racconti. Lo fa in presa diretta, mentre sta percorrendo la Pontebbana verso Cividale. E sembra allontanarsi da una decisione in quel suo riportare alla mente un episodio d’infanzia, quando alle elementari percorreva la stessa strada in pullman, attraversando gli stessi paesi, gli stessi paesaggi. Eppure, proprio nel finale del prologo, ci dice che ha accettato perché a trent’anni non può più sottrarsi alle occasioni per perdersi. E perché, per ritrovarsi, avrebbe avuto un rivolo d’acqua caparbio, immaginando sotto tanta ghiaia, quanta possa scorrere. È questo il motivo che ti ha spinto a raccogliere la sfida dell’editore Laurana?

Sono diverse le ragioni per cui ho accettato. La prima è che raccogliere gli stimoli esterni è sempre un’occasione formativa. Nel caso specifico, affrontare il titolo proposto dalla casa editrice mi ha spinto a ragionare su temi che finora mi avevano solo sfiorato, a documentarmi sulla vita di personaggi di cui sapevo poco o nulla e, sul piano tecnico, a ricercare una struttura narrativa che mi permettesse di raccontare questi italiani di successo in modo, se non originale, almeno personale. Per tutto questo sono grato a Laurana. Un altro buon motivo risiede nel fatto stesso che mi veniva data l’opportunità di tornare al racconto breve, forma nella quale mi trovo a mio agio e che purtroppo le case editrici sono sempre più restie a proporre al pubblico per motivi essenzialmente commerciali. Quella richiamata nella prefazione è però la motivazione che più riguarda il senso del libro. La collana “Dieci!”, di cui la mia raccolta è la quarta uscita, si propone come finalità quella di fissare dieci idee o persone o fatti da salvare nel nostro tempo. Nello scrivere i racconti ho cercato di accordarmi a questa idea guida, costruendo piccole narrazioni almeno in parte edificanti attorno a dieci personaggi che diventano i rappresentanti “emersi” di un paese reale e sommerso che forse è un po’ meglio dello stereotipo noto all’estero.

Continua a leggere

Intervista a Federica Manzon

Di fama e di sventura (Mondadori, 2011) è un romanzo dal sapore incalzante, una storia di cui è difficile disfarsi facilmente. Il suo protagonista è Tommaso, un bambino nato sotto una cattiva stella, che sogna di essere un cowboy, ma vive un’infanzia da indiano. È debole, ha paura dell’acqua in una città, Trieste, dove tutti sembrano essere nati nell’acqua. Non ha mai visto il padre, che per lui è un desiderio e una nostalgia. Ma quel bambino ha qualcosa di speciale. Tommaso saprà leggere le stelle e gli uomini con uno sguardo. Saprà leggere il futuro, e su questo costruirà il suo successo, diventando un manager di una delle più importanti banche mondiali. Eppure questo successo attirerà su di lui la sventura, che lo costringerà a lottare con tutte le sue forze per cercare se stesso, prima in un matrimonio malato, poi in una storia d’amore perduta e ritrovata.

Il titolo del libro mi fa venire in mente un verso della poesia A Zacinto di Foscolo, in cui è Ulisse ad essere bello di fama e di sventura. Ulisse è l’eroe avversato dal destino che fa ritorno alla sua petrosa Itaca. Vive per ritornare. Allo stesso modo, Tommaso continua per tutta la vita a cercare se stesso contro un destino che sembra già scritto.

Tommaso è un eroe, ma non è Achille. Non sa conquistare vittorie per arditezza; non possiede quelle doti di fierezza, bellezza e forza che fanno risplendere nel campo assolato della battaglia e fanno innamorare alla prima occhiata fanciulle divine e mortali. Di Tommaso ci si innamora conoscendolo, dispiegando a una a una le pieghe del suo carattere difficile e riottoso, della sua intelligenza. Perché, come Ulisse, Tommaso è sul suo talento che conta per diventare un eroe capace di conquistarsi fortuna e gloria, e l’amore degli altri. E, ancora come l’eroe di Itaca, sa che per ottenere ciò che vuole e ciò che il destino gli riserva di grande deve voltare le spalle e andarsene, anche se nel farlo si sentirà male e non troverà la forza per un ultimo saluto. E, ancora come per Ulisse, anche per Tommaso il mare sarà un richiamo costante, seducente e fatale.

Continua a leggere

Intervista a Fabio Geda

Il suo nuovo libro è un monologo dall’andamento teatrale di un maestro che insegna in un carcere minorile, la Montagnola, ovvero il Ferrante Aporti. È una storia vera, come tutte quelle dei libri di Geda. È la storia del maestro Mario che, ora insieme alla moglie Chiara, dopo le magistrali si trova ad insegnare in aule dove pensava non sarebbe mai entrato e che invece hanno segnato la sua vita. Ha toccato il disagio, quello vero, dei ragazzi poveri nell’Italia del boom, sostituiti nel corso degli ultimi tempi da una nuova generazione di senza futuro, i ragazzi stranieri. Nelle storie di quei ragazzi è racchiusa la storia del nostro Paese.

Come è stato l’incontro con queste due figure?

È capitato che da alcuni anni collaboro con il Salone del Libro di Torino all’interno di un progetto che si chiama Adotta uno scrittore. Inizialmente gli scrittori erano “adottati” dalle scuole, ma io, tre anni fa, ho deciso di farmi adottare dal carcere minorile di Torino, il Ferrante Aporti. In quella occasione ho conosciuto Mario, il maestro, e insieme abbiamo organizzato e gestito un laboratorio sulla narrazione che è sfociato, il primo anno, in un documentario di Rai Educational – potete vederlo qui:

http://www.fuoriclasse.rai.it/new/dettaglio_puntata.aspx?IDPuntata=430

e il secondo anno in un audio documentario per Radiorai 3 . Da quest’ultima esperienza è anche nato il progetto “La bellezza nonostante”, edito da Transeuropa.

Continua a leggere