Questo è un contributo al progetto Filosofare della I D classico
- I due filosofi entrano in scena
Il dialogo “Protagora”, come quasi tutti i dialoghi platonici, ruota intorno alla figura di Socrate che in questo caso discute con Protagora, noto sofista di Abdera, sulla virtù politica. L’arrivo ad Atene di questo sofista aveva suscitato un certo entusiasmo, tanto che Ippocrate, amico di Socrate, esprime il desiderio di divenirne allievo. Socrate stesso si mostra molto interessato e desideroso di capire meglio in cosa consista l’insegnamento di Protagora. Davanti a tutte le persone che si erano presentate per ascoltare il dialogo dei due filosofi (si trovano tutti in casa di Callia), Socrate finalmente chiede a Protagora quale profitto il suo giovane amico potrà trarre dal suo insegnamento e in che cosa potrà migliorare. Protagora si mostra subito molto convinto di sé e del proprio sapere: egli risponde di saper insegnare ai giovani a “condursi con senno (“eubulia”) nelle faccende private e in quelle pubbliche”, vale a dire l’arte politica (“politikè tekne”). Protagora si dichiara inoltre sicuro che l’insegnamento di quest’arte non solo sia possibile, ma sia anche necessario soprattutto in una città come Atene dove, grazie al regime democratico, i cittadini possono parlare nelle assemblee e dove dunque servono buoni cittadini (“agatoi politai”) come quelli che lui si propone di formare. A questo punto viene formulata da parte di Socrate la domanda che sta al centro di tutto il dialogo: “L’arte politica può essere davvero insegnata, trasmessa agli altri?” Socrate su questo punto è dubbioso, non condivide l’opinione positiva sostenuta al riguardo da Protagora, ma nonostante ciò mostra rispetto e considerazione nei confronti del suo interlocutore (“Poiché tu sostieni ciò non sarò certo io a dubitarne”, 319 b). Socrate porta a sostegno dei suoi dubbi ciò che avviene durante le assemblee cittadine: “Se per la città si tratta di costruire edifici vengono chiamati in qualità di consiglieri gli architetti. Se uno qualsiasi, che non sia considerato un competente in materia, dà la sua opinione non gli danno retta e lo cacciano via.” (319 b-c). Viceversa chiunque, in assemblea, può dare consigli sul modo di condurre gli affari dello Stato e non ci si stupisce se tutti intervengono anche senza aver avuto un maestro poiché evidentemente, fa notare Socrate, tutti ritengono che la virtù politica sia una qualità che ciascun cittadino possegga e che perciò non possa essere oggetto di insegnamento. Socrate avanza anche un altro argomento per avvalorare i suoi dubbi ed è il seguente. Se la virtù politica è insegnabile, come mai quei cittadini, come Pericle, notoriamente dotati di grande virtù politica non sono in grado di trasmetterla ai loro figli e di migliorarli in questo ambito? Avanzate queste osservazioni Socrate invita Protagora a sciogliere i suoi dubbi. Questi risponde facendo ricorso a un mito, quello di Prometeo (vedi, più avanti, “Il mito di Prometeo in Platone”) raccontando di come venne donato agli uomini, grazie a Prometeo, il sapere tecnico (“enteknos sofia”). Protagora si sofferma anche sui doni fatti da Zeus affinché la specie umana non andasse distrutta, e cioè “pudore” e “giustizia” (“aidos kai dike”). A differenza di tutte le altre arti, in cui basta un esperto per molte persone, il pudore e la giustizia devono però essere in possesso di tutti i cittadini e, per questo, vengono distribuite a tutti indistintamente. Il significato del racconto è evidente: affinché la città si possa reggere tutti i cittadini devono averne parte e dunque, conclude Protagora, la virtù politica è necessaria così come è necessario il suo insegnamento. Questo primo scambio di idee tra Socrate e Protagora costituisce già un buon esempio di dialogo filosofico, inteso come una discussione in cui gli interlocutori non mirano a prevalere uno sull’altro bensì a ricercare, insieme, la verità adottando un atteggiamento di ascolto e di rispetto reciproco. La filosofia, in quanto “nobile sofistica”, non è tecnica o semplice eleganza retorica. È invece l’instaurarsi di un vero dialogo in cui le ragioni di ciascuno vengono ascoltate e prese sul serio, in cui non si ricorre all’inganno né alla suggestione. Perché si realizzi un vero dialogo occorre però che gli interlocutori credano che sia possibile raggiungere un terreno di intesa, una verità condivisibile. Se, al contrario, chi dialoga è convinto di possedere già la verità e dunque non si mette davvero in discussione, il dialogo stesso diventa una finzione.
(Elena Tiozzo, Denise Margjonaj, Sara Quarin)
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