Non sono un critico letterario, e so bene che l’ultimo romanzo di Jonathan Franzen è stato salutato da molti come una meraviglia, eppure c’è in “Freedom” qualcosa che non mi convince, quantomeno nella definizione di capolavoro, dove è implicito un valore perenne ed universale che, sarà limite mio, francamente stento a vedere.
Ecco quindi i tanto attesi Berglund. Non è facile parlare di loro, perché facile non è nemmeno l’ambizioso obiettivo che Franzen si è proposto, quello di rappresentare in un grande e complicato affresco l’America degli anni 2000, con tutte le sue contraddizioni e i suoi naufragi, politici e non. Patty e Walter (i Berglund, appunto) provengono da famiglie borghesi, frequentano il college (siamo agli inizi degli anni ottanta) si sposano, hanno due figli e vivono a St Paul, un gentrified neighborhood che serve all’uopo di un’ambientazione totalmente, esclusivamente borghese (siamo negli anni novanta), vivono periodi profondamente travagliati, fatti di tradimenti, depressioni, illusioni (siamo al giro di secolo), fino ad arrivare ad una rottura che pare definitiva e ad una finale, inaspettata (?) riappacificazione (e siamo ai giorni nostri).