La playlist dei prof. – Massimiliano Merisi

Premessa.
In quella parte del libro de la mia memoria, dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice… Heavy Metal (ebbene sì), e da lì – pur con un’acribìa insolitamente selettiva ed esigente (soprattutto per i testi, che traducevo da autodidatta, io studente di Tedesco…), dati il genere e l’età – devo confessare di avere inizialmente attinto, durante le scuole medie, armi tanto rumorose quanto ingenue per cercare di difendermi dall’assalto inarginabile della pervasiva musica easy dei tardi anni Ottanta.
E però che soprastare a le passioni e atti di tanta gioventudine pare alcuno parlare fabuloso, mi partirò da esse; e trapassando molte cose […] verrò a quelle parole le quali sono scritte ne la mia memoria sotto maggiori paragrafi.
Benché adesso ascolti abitualmente tutt’altro, non posso non aprire questa mia personale lista, con un doveroso omaggio nei confronti degli Autori sinfonici, romantici e decadenti (da Brahms a Schoenberg, per intenderci, attraverso Tciaikovskij o Chopin) di cui fino a non molti anni fa letteralmente mi beavo, con vera passione da rockettaro adolescente, procurandomene tutti i dischi, in molteplici esecuzioni (anche dieci della stessa composizione), e girando le capitali europee alla ricerca di loro concerti. Due nomi in particolare mi sembrano compendiare esaustivamente e in maniera mirabilmente fedele, le mie passioni di “quand’era in parte altr’uom da quel ch’i sono”: Strauss (Richard, quello di Monaco, non i due Giovanni viennesi!) e Gustav Mahler.
Decadente e ombroso questo, quanto solare e limpidamente classico l’altro. Fra le molte opere, sceglierei, non senza rimpianti per le troppe esclusioni, almeno i Vier letze Lieder di Strauss (in particolare l’ultimo, Im Abendrot, con quel meraviglioso accordo iniziale) e Der Abschied di Mahler, conclusivo malinconico quadro del tardivo Lied von der Erde, per contralto e grande orchestra.
In tempi più recenti – in perfetto anche se ritardato parallelismo coi miei gusti artistici in generale, e letterari in particolare – ho puntato a sfrondare ed essenzializzare, riducendo i volumi orchestrali e ripiegando convintamente verso epoche più classiche ed estetiche meno roboanti. Il nome d’obbligo di questa fase, ça va sans dire, è quello di Monteverdi, di cui,  data la vastità della produzione e la sua invariabilmente eccelsa qualità, non saprei veramente cosa consigliare. Azzarderei forse, tra i superbi madrigali concertati, il fascinoso Lamento della ninfa (di cui peraltro – e la cosa non dovrebbe stupire poi più di tanto dato il gusto tutto italiano, e perenne, per la melodia – esiste pure una non disprezzabile cover in inglese di una cantante rock contemporanea).
Si noterà che ho proceduto riducendo costantemente la componente strumentale a vantaggio di quella vocale, pur presente fin dall’inizio, e, alla fine, ho deciso di farla sparire del tutto (con l’eccezione di un mistico velo di organo d’accompagnamento) attestandomi felicemente, anche per ragioni personali, sul Canto gregoriano, apprezzando con vivo piacere estetico e spirituale le bellezze della monodia e il realismo sovrano della modalità, rispetto alle successive evoluzioni della musica. Suggerire degli esempi in questo àmbito, più che azzardato, rischia di apparire grottesco ma, data la finalità didascalica di questa rubrica, sfiderò il ridicolo a beneficio dei miei venticinque followers, trascegliendo dal mare magnum almeno un paio di cosette sublimi. Per quanto riguarda il Proprio, dunque, propongo almeno il Graduale del giorno di Pasqua Haec dies (ma in forte concorrenza, abbiate pazienza, con il secondo Alleluja di Pentecoste), mentre per l’Ordinario, con sicura univocità, rimando alla Missa I, Lux et origo (del Tempo pasquale).
Ascoltatene almeno lo struggente Gloria, e provate a trattenere le lacrime…

Massimiliano Merisi

La playlist dei prof – Alessandro Pegolo

1)  Summertime – Janis Joplin

Avevo più o meno sedici anni, ero a Lignano. Un’amica mi chiese se l’accompagnavo a casa sua a Mestre: doveva andare a prendere qualcosa con il fratello grande neopatentato. Che in autostrada correva a centottanta. Ero terrorizzato e gli chiesi se poteva andare più piano. “No,” rispose. “Devo assolutamente ascoltare Summertime di Janis Joplin: è questione di vita o di morte”. Arrivati, salì le scale così in fretta che, quando io e la mia amica arrivammo a casa loro, il disco stava già andando. Ed era una grazia: la voce roca della Joplin e le chitarre tirate al massimo, alternate a pause meditative… il tutto su un vecchio standard jazz (di Gershwin, da Porgy and Bess, 1935) reso irriconoscibile (ma le parole erano quelle!). Che meraviglia!

2) Alexandra leaving + The Letters – Leonard Cohen

“Il dono di una voce d’oro”, scherza in una propria canzone Leonard Cohen (classe 1934; tra l’altro, in Chelsea Hotel ricorda di avere avuto una liaison con la Joplin). Prima poeta (frequentava da giovane i circoli artistici di Montreal), ha saputo aggiungere ai suoi testi la voce d’oro -bassa come poche, ma anche suadente, senza però traccia di volgarità e autocompiacimento- e una sensibilità musicale che risale anche alla tradizione ebraica. Per molti, me compreso, è il più grande cantautore di sempre. Questi due bellissimi brani non hanno niente in comune se non che entrambi sono del nuovo millennio (rispettivamente 2001 e 2004, quando, quindi, L.Cohen, -così si firmava nell’emozionante Famous blue raicoat, di quasi quarant’anni prima!- era pressoché settantenne); inoltre entrambi si avvalgono egregiamente del controcanto di Sharon Robinson (Cohen è maestro nel mettere controcanti femminili nelle sue canzoni).

3) Ridere di te + Gli angeli – Vasco Rossi

Due brani di Vasco, scelti quasi a caso, solo per esprimere la gratitudine -tra breve è il giorno del Ringraziamento- di essere nato nella stessa decade di Vasco e quindi di capirne ogni riferimento, ogni sfumatura… (A volte me ne vergogno un po’, soprattutto di fronte a quelli che citano Mahler o Britten, ma in Vasco c’è la disperazione dei tempi e l’eterna angoscia maschile.) Ringrazio anche tutti i miei fratelli maggiori, Paolo Conte (è suo uno degli insulti che mi piace di più “E’ gente per cui le arti stan nei musei” -mi vengono in mente anche dei colleghi…), Francesco de Gregori (riascoltatevi uno dei suoi primissimi brani, cantato insieme a Venditti, che si intitola In mezzo alla città: sembra scritta oggi) e molti altri  (sì, anche quel brutto ceffo di Venditti, perché a volte è bravo, vedi le cose che dice sull’amore e il desiderio in Le ragazze di Monaco)

4) “Analfabetizzazione” – Claudio Lolli

“Più del vento sarà la mia bandiera forte, più del vento sarà, più del vento…” Poi qualche arpeggio e “La mia madre l’ho chiamata sasso, perché fosse duratura sì, ma non viva”. Quando ascoltavo Lolli su vinile, potevo immaginare di fondere in una sola canzone la fine di quella precedente e l’inizio (non c’era quasi stacco) di Analfabetizzazione (da Disoccupate le strade dai sogni, 1977). Lolli è stato il mio autore per tutta l’adolescenza. Io non lo trovavo neanche triste… La sua antipatia e scontrosità erano leggendarie, come quelle di Dylan: ma mica si deve amare il cantante per amare le sue canzoni…)

5) This is not America – Silje Nergaard + Hotel California – Jeanne Gies

Nota per il curatore della rubrica: cinque brani?!? Impossibile. Forse con cinquanta… ho dovuto lasciar fuori My baby just cares for me nella sorprendente versione di Cyndi Lauper, What are you doing the rest of your life della spagnola Anna Luna, due versioni di Autumn leaves di Eva Cassidy e di Tina May, I put a spell on you, hit di Nina Simone ma che io ascolto nella versione della tedesca di origini tanzaniane Lyambiko, e ancora It looks like rain di Jann Arden o Turn your lights down low con Lauryn Hill & Bob Marley, eccetera eccetera eccetera (questo per spiegare cos’è la preterizione…). I due brani del punto 5) sono due cover di brani ben noti (rispettivamente di David Bowie e degli Eagles), ma reinterpretati benissimo dalla norvegese Nergaard (n.1966, riconvertita al jazz dal 2000: il brano è del 2003) e dalla statunitense Gies (il brano è del 2002). Provate ad ascoltarli e mi direte.

La playlist dei prof: Jean Luc Nuvoli

1)  Voodoochile – Jimi Hendrix

Dalla prima volta che, tanti anni fa, mi sono imbattuto in Voodoochile, continuo ad ascoltare questo pezzo quasi ossessivamente, senza che stancarmi mai. Non so dire cosa mi accada quando lo ascolto. Non considero neanche più Voodoochile un brano musicale ma una sorta di rito pagano, una energia BRUTALE che proviene dalle profondità della terra o del mio corpo, qualcosa di viscerale che mi inonda ogni volta di vitalità.

2) The Velvet Underground and Nico (noto come “il disco della banana”)

Si tratta di un intero LP, frutto della collaborazione fra il gruppo rock Newyorkese dei  Velvet Underground (che annoverava musicisti come Lou Reed e JJ Cale), la fotomodella di origini tedesche Nico, e l’artista, fondatore della Pop Art, Andy Warhol (autore della famosa banana ritratta sulla copertina del disco). E’ un’opera “maledetta” composta da undici brani, autentici “fiori del male”, che raccontano un viaggio allucinato nel sottosuolo psichico e morale della allora più cattiva e corrotta metropoli dell’occidente. Pezzi come Venus in Furs, Heroin, I’m Waiting for my man, raccontano l’incubo della vita metropolitana raffigurato attraverso storie di alienazione, solitudine, perdizione fisica e morale, tra rapporti sadomaso, droga, prostituzione, violenze e assassini. E’ considerato uno dei dischi più importanti del Novecento capace di esercitare un’influenza enorme sul successivo sviluppo di alcune delle più importanti correnti del rock e del pop (Psichedelia, Punk, New Wave, Dark).

3) L’indiano – Fabrizio de Andrè

E’ un disco senza titolo che riporta sulla copertina l’immagine di un indiano a cavallo. Il disco racconta in modo poetico l’esperienza del rapimento subito dal cantautore e dalla moglie nel 1979 in Sardegna. E’ un disco che mi è caro per diverse ragioni: e’ dedicato alla Sardegna, terra che De Andrè amava profondamente; è l’opera di un poeta che considero fondamentale per la mia formazione etica ed estetica.

4) “Su lamentu de su pastore” – Gruppo Rubanu Orgosolo

Una delle esperienze più innovative nell’ambito della musica etnica sarda. Non si tratta di folclore o di etnomusicologia, ma di un vero e proprio manifesto di quell’aristocrazia guerriera rappresentata dai pastori della zona montuosa centrale della Sardegna.

5) Olè Coltrane – John Coltrane

Anche per questo pezzo miracoloso – composto da un genio assoluto del Jazz di ogni tempo – non riesco a trovare parole capaci di descriverlo. E’ un brano improvvisato nel quale un gruppo musicisti eccezionali (McCoy Tyner,  Elvin Jones, Freddie Hubbard, Art Davis) viene condotto dal loro capo carismatico, a esplorare latitudini arcane. Un salto nell’ignoto di venti minuti che molti hanno descritto usando espressioni come “febbre interminabile”, “delirio”, “caos” “urlo straziante”.

Jean Luc Nuvoli