Cosa leggono i prof: Giulia Bozzola

Il Signore degli OrfaniHo appena terminato di leggere “Il Signore degli Orfani” di Adam Johnson, e comincerò a parlarne citandone un brano:

Infilare la mano in uno scarpone alla ricerca di vecchie dita appiccicose è come piazzare una trappola in un tunnel di una zona smilitarizzata o estirpare uno sconosciuto da una spiaggia in Giappone: fai un bel respiro e vai. Jun Do chiuse gli occhi, inspirò a fondo, infilò le mani dentro gli scarponi umidicci e li ispezionò con le dita, tastandoli tutti. Alla fine piegò i polsi per arrivare fino alle punte e tirò via quello che doveva tirare via. L’operazione gli lasciò il viso incupito. Si voltò verso gli infermieri, verso la guardia, verso il detenuto quasi morto ormai condannato.

“Io ero un cittadino modello” disse a tutti. “Io ero un Eroe della Nazione”, aggiunse, poi uscì dalla porta calzando i suoi nuovi scarponi, uscì in un luogo in cui nulla aveva importanza. Da questo punto in avanti, null’altro si sa a proposito del cittadino che risponde al nome di Pak Jun Do.

Ecco, Il Signore degli Orfani è uno di quei libri che non ti lascia respirare, perché l’orrore che descrive, la spersonalizzazione dei protagonisti che assumono identità diverse con una facilità disarmante (perché questo in Corea del Nord, dove il romanzo è ambientato, è non solo possibile, ma desiderabile da parte del regime, e passivamente accettato da chi la subisce), il continuo spostamento di luoghi e persone che paiono non pensare, ma agire per un senso di legittima difesa, senza sentimenti, senza storia, senza passioni, ci riporta ad altri romanzi dove la descrizione di regimi dittatoriali mostruosi era sì realistica, ma quantomeno fungeva da monito, non era perfettamente reale.
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Cosa leggono i prof – Giulia Bozzola

Tony & Susan

Austin Wright, “Tony & Susan”, Adelphi, 2012, p. 408

C’è molto metodo in “Tony & Susan” di Austin Wright (non a caso l’autore ha tenuto corsi di tecnica della narrazione per buona parte della propria esistenza) e, se forse l’equilibrio tra le parti non è perfetto – si consideri come Susan ci approccia, almeno nella prima parte del romanzo, in maniera minimale e superficiale, per poi espandersi aprendoci a molta della sua storia, e ritraendosi nella parte finale lasciando fin troppo spazio a Tony, per molti versi suo alter ego maschile –  il romanzo si incastra molto bene e non delude fino al finale, dal quale tutto ci si aspetterebbe, tranne che…e qui sta il bello della narrazione! Susan è un’insegnante d’inglese con una famiglia borghese e benestante (il marito è un medico di successo, i figli fanno tutto ciò che ci si aspetterebbe da loro: giocano, lasciano le cose in disordine, protestano, escono con gli amici, fanno sport). Tuttavia un giorno qualsiasi Susan riceve dall’ex marito, Edward, bollato dall’attuale come “uno stronzo”, un manoscritto, con preghiera di lettura e commento sullo stesso. Il momento è perfetto: Susan resta sola per il week-end (il marito deve recarsi a un convegno, durante il quale spera di ottenere una proposta di lavoro che potrebbe cambiare la vita della sua famiglia), fuori nevica, e a lei non resta altro che dedicarsi, appunto, alla lettura. A chi non è capitato, leggendo il romanzo di qualcuno che conosce, di sentirsi rimbombare in testa la voce dell’autore, e di voler riconoscere in questo o quel personaggio se stessi o qualcuno di propria conoscenza, o fatti e vicende noti ad entrambi? Se poi l’autore è un ex marito con il quale si è spartita larga parte della propria esistenza, la tentazione diventa inevitabile. E Susan, che tanta parte della sua vita ha condiviso con l’ex marito, conosciuto fin da bambino, legge e s’immerge in questa sensazione, assieme orribile e affascinante.

La storia è quella di Tony Hastings, mite professore di matematica che parte, con la moglie e la figlia, per le vacanze nella casa di villeggiatura lassù nel Maine (toh guarda, anche Susan possedeva una casa di vacanza nel Maine…). L’inizio, apparentemente quieto e banale, subirà un’improvvisa e terribile accelerazione quando Tony, la moglie e la figlia saranno sottoposti durante il viaggio a un sequestro che finirà malissimo (gli echi de “Il campo di cipolle” di Joseph Wambaugh sembrano perfino troppo evidenti) e Susan verrà gettata in una spirale di ricordi fatti di tradimenti e incomprensioni, e la sua famiglia, che all’inizio del romanzo ci sembrava se non la migliore delle famiglie possibili, quantomeno molto normale, ci apparirà in tutta la sua tristezza fatta di meschinità e piccoli compromessi. Ma perché l’ex marito di Susan ha chiesto proprio a lei di leggere quel manoscritto? Era conscio degli effetti che avrebbe potuto provocare? Si tratta di una sorta di vendetta? E mentre Tony Hastings diventa sempre meno mite e modesto, e cova un rancore sordo nei confronti delle proprie vicende personali, Susan aspetta con ansia il giorno in cui Edward arriverà a Chicago, per discutere direttamente con lui il senso del romanzo. Senonché… ma qui è bene fermarsi, e lasciare ai potenziali lettori la voglia di tuffarsi tra le pagine di questo libro. Con una scrittura limpida e lineare, che non rivela tuttavia uno sforzo di differenziazione nello stile tra il romanzo “scritto” da Edward e quello scritto da Wright, la storia corre veloce, lasciandoci a volte interdetti, a volte sorpresi, sospesi tra la voglia di sapere di più – e Wright è abile nel tenersi molte cose per sé –  e la coscienza che di più non si può sapere.

Cosa leggono i prof – Marco Durigon

Mentre leggo il nuovo romanzo di Dacia Maraini, penso a un cimitero che ho visitato una quindicina di anni fa in Norvegia. Ci sono entrato per caso, mentre cercavo di raggiungere la cittadina di Alesund, sulla costa occidentale. Visito spesso i cimiteri quando sono in vacanza o alla scoperta di una nuova città; a volte parlo di questa consuetudine con i miei studenti, e loro si meravigliano, mi prendono in giro, temono che la gita a cui li dovrò accompagnare si trasformi in un triste repertorio di monumenti funebri.
Il cimitero è uno dei luoghi più inverosimili che l’uomo abbia mai inventato, ma è anche il luogo che forse più di ogni altro rivela il grado di civiltà dell’uomo. Visitare un cimitero significa conoscere il rapporto che un popolo intrattiene con i propri cari, conoscere come quel popolo si rapporta con la morte e quindi, in fondo, con il senso della vita.
Ciò che mi colpì, visitando questo piccolo cimitero sperduto nella campagna norvegese, fu la presenza, al suo ingresso, di alcune attrezzature per i giochi dei bambini. In Italia sarebbe impensabile: bimbi che corrono, che urlano, che inseguono una palla calpestando l’erba curatissima che circonda le lapidi. Ma soprattutto bimbi così a diretto contatto con i morti.
Che cos’è un cimitero? Molti di noi risponderebbero che è un luogo silenzioso, triste, dove ci si reca contriti per omaggiare i defunti. Eppure non sempre è stato ed è così. Alcuni documenti di età medievale e moderna ci descrivono i cimiteri come un luogo pubblico simile a un mercato o a una piazza, con tanto di botteghe e merci di ogni tipo; ci raccontano che spesso al cimitero ci si incontrava per danzare e per giocare, tanto che alcune leggi dovettero proibire l’ingresso a musicanti, mimi e giocolieri.
C’è un altro cimitero che da un po’ di tempo vorrei visitare in Scandinavia: è quello di Stoccolma. Sorge all’interno di un grande bosco, le lapidi si trovano ai piedi di enormi alberi di conifere, ai bordi di laghetti colorati di ninfee, su prati verdissimi, punteggiati di fiori. Insomma un luogo perfetto per una passeggiata romantica con la fidanzata, più che l’immagine di un camposanto. Ho citato la Scandinavia ma potrei citare i verdi cimiteri inglesi, oppure le bellissime croci celtiche che si incontrano sperdute nei paesaggi irlandesi, a segnalare la presenza di qualche morto a cui è stato concesso di riposare in luoghi stupendi, sospesi tra il verde delle brughiere e il blu intenso dell’oceano. Potrei ancora parlare di alcuni cimiteri americani o giapponesi: luoghi accoglienti, che invitano alla meditazione, al raccoglimento, a godere del silenzio e della pace.
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Il gioco indiscreto di Xuan

Hanoi, anni Trenta: qui si consuma, a ventisette anni, la breve vita di Vu Trong Phung, scrittore e giornalista vietnamita. Oggi considerato uno dei letterati più importanti del sud est asiatico, fu censurato in patria fino al 1986, quando venne sottratto alle maglie della censura comunista il suo più famoso romanzo: “ Il gioco indiscreto di Xuan”.

Ad  Hanoi va in scena la storia di Xuan. Xuan, detto il rosso per il colore della sua chioma, si trasforma da raccattapalle in un campo di tennis francese, frequentato dalla ricca  società locale, a eroe nazionale di un paese che sta vivendo  una vera e propria  metamorfosi con l’arrivo dei costumi e delle abitudini introdotte dai francesi. Da figlio del popolo, dotato di quella seduzione e di quel cinismo che trovano in Bel Ami di Guy de Maupassant l’antesignano più autorevole, per una serie di coincidenze fortunate, realizza una vera e propria scalata sociale che si conclude con un ricco matrimonio. Continua a leggere

Cosa leggono i prof.: Maria Carolina Tedeschi

Il romanzo–saggio del giovane scrittore toscano è un testo insolito, originale. In esso si sovrappongono, si integrano e si fondono più dimensioni narrative: dalla matrice autobiografica (c’è anche la “ sua storia”) alla riflessione di grande attualità (la crisi dell’industria tessile pratese e italiana tout court), dalle speranze per il futuro di un giovane e di una generazione alle “amare disillusioni” dell’età matura. In ultimo “Storia della mia gente” è anche la giustificazione della vocazione letteraria di Nesi:” So che sono servo dei miei libri e della mia famiglia, e il mio destino è scrivere. Finché potrò”.

In una Toscana che va dal “secolo d’oro” (anni  20 – 30 del secolo scorso) dell’industria tessile fino alla recente (2004) recessione  si muovono un imprenditore, O.Nesi, illustre e lungimirante antenato dell’autore, e la sua famiglia, con  fatti, ambizioni, fallimenti, abitudini, mode.

Le vicende familiari sembrano tuttavia quasi scorrere in secondo piano rispetto all’attenzione, alla focalizzazione dedicata alla gente di Prato, gente che si è consumata nel lavorare, che ha creato o almeno concorso al grande benessere del  Paese. Il capitalismo dei Nesi era però “morale”, capace cioè di “trasformare gli stracci in buoni tessuti”. Un mestiere molto redditizio, certo, ma che garantiva lavoro, cibo a molte famiglie toscane. Tutto questo fino agli anni ’90, quando, con l’avvento della globalizzazione dei mercati e la concorrenza cinese, ha inizio, inevitabilmente, la crisi, lenta e inesorabile, la dissoluzione di un sistema industriale. Ecco, allora, nel settembre 2004 la drammatica decisione presa dalla famiglia Nesi: la vendita dell’azienda. Ma questo atto ha un significato molto più sottile e tragico: “quando cedi un’azienda vendi anche la sua storia”, si legge.

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Cosa leggono i prof: Liviana Covre

“ E la chiesa inventò la donna”, il sottotitolo dell’ultimo libro di Michela Murgia , potrebbe sembrare l’origine pretestuosa di un lavoro che nasce da una circostanza quasi casuale: il sindaco di un paesino dell’entroterra sardo invita la scrittrice a un convegno dal titolo provocatorio ( Donne e chiesa: un risarcimento possibile ?). Tra parrocchiane composte e forse convinte di partecipare a un’ originale lettura del Rosario e un giovane parroco preoccupato di vedere scalfito il suo ruolo di difensore di un antico ordine, la Murgia, donna cristiana e militante nelle file dell’Azione cattolica, si ritrova a fare i conti con la sua formazione culturale e con una ragazzina sedicenne che ricevette la più misteriosa delle visite e accettò un figlio che la rese complice della salvezza del mondo. Questo però non è un libro sulla Madonna, perché in quel convegno la scrittrice si ritrova a fare i conti con tutte le donne della sua vita e con le loro storie, fatte di adeguamento a dei modelli che la chiesa ha contribuito a diffondere, ma che certi uomini hanno saputo codificare secondo stereotipi che vogliono le donne belle e silenti. Perfino le parole di una grande donna della chiesa cattolica, Madre Teresa di Calcutta, che vede il destino delle donne “come cuore del focolare o cuore della madre Chiesa”, forniscono una prova chiarissima che nell’ordine naturale del mondo le donne sono il cuore che serve e gli uomini la testa che ordina. La suora albanese non ha fatto altro che esprimere una convinzione radicata da secoli e che ha trovato un difensore di grande efficacia in Giovanni Paolo II , sebbene, nella lettera apostolica “Mulieris dignitatem”, egli abbia tentato di attualizzare l’insegnamento della chiesa sul ruolo della donna alla luce delle istanze femministe degli anni settanta. Per chi come me ha vissuto la giovinezza proprio in quegli anni in cui stava cambiando la società e nuove conquiste sembravano profilarsi in tema di legislazione sul diritto di famiglia, il libro della Murgia è illuminante per comprendere le ragioni di chi non vedeva una soluzione solo di tipo politico al problema dell’emancipazione femminile. Continua a leggere

Cosa leggono i prof: Liviana Covre

“Che tempo che fa”, la trasmissione di Fabio Fazio mi permette di non sentirmi derubata quando pago il canone televisivo: costituisce uno dei rari programmi che dibattono di libri e intervistano autori con la leggerezza del divertimento e la profondità dell’intelligenza. Ieri sera non potevo dunque perdermi l’intervista con Eugenio Scalfari alla presentazione del suo ultimo saggio che faceva bella mostra di sé sul tavolo del mio salotto e con il quale da un paio di sere avevo cominciato il mio personale dialogo di lettrice. Avevo incontrato a Pordenonelegge un autore che rivisitava il pensiero moderno in “Per l’alto mare aperto” da Montaigne a Cervantes fino a Leopardi e Montale in un viaggio che cercava risposte a una sorta di invasione barbarica pronta a sconfiggere la modernità e nello stesso tempo lasciava aperta la speranza a una nuova scoperta, perché la storia umana non può finire finché l’uomo sapiens riuscirà a guardare il cielo stellato e a cercare la legge morale dentro di sé.

Quel saggio si chiudeva con “gli ultimi fuochi” di un’epoca al tramonto: Calvino e Montale e con alcune pagine dedicate ai due grandi interpreti del’900 che preparano le riflessioni del nuovo saggio. Aveva ricordato Calvino  e il suo tentativo di placare un’anima malinconica con la leggerezza creativa della scrittura; gli dedica ora una pagina iniziale del libro per dimostrare come spesso gli artisti siano dominati da una natura incline all’introversione. Continua a leggere