Angela Falotico su “Poetry”

In questo articolo non sono scritte cose nuove, credo, ma si dicono con semplicità e forse per questo arrivano diritte.

«C’è cultura ogni volta che […] nello spazio tra ciò che appare e quello che potrebbe essere corre la possibilità di un tratto meno infelice, e di molte cose belle da fare.»

La cultura (per me in particolare, la lettura) può essere la ricerca di un’esperienza meno infelice o meno piatta e scontata della vita, la possibilità di incontrare una bellezza che a volte si fatica a trovare, ma che resiste come una promessa. Da qui la ricerca di un altro libro con il quale accenderci, anche se corriamo il rischio di diventare una seconda Emma o un’altra Hannah (questa di sicuro poco conosciuta, “sorella” della prima); ma più forte è il desiderio di conoscerci e viverci più completamente, perché non è né Emma né Hannah che ci seducono, ma piuttosto uno dei tredici soldati (e tutti e tredici insieme) chiamati a difendere “il Beaufort”, li invidiamo per il loro attaccamento viscerale alla vita, che è anche riconoscimento della sua possibilità di bellezza e quindi di senso e valore (nella precarietà di chi è in guerra, o forse proprio per questo).

«Ciò che impedisce davvero la cultura, più che la povertà di mezzi, è la povertà di relazioni. Tutto ciò che rende difficile incontrarsi.»

Mi è tornata in mente la frase che sintetizzava Centochiodi, «tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico» (più o meno suonava così). Povertà di relazioni, terrorizzante! E la paura di non essere autentici mentre si vive, che equivale a non vivere (per qualcuno); meno drammaticamente, comunica ad altri un difetto di vita, nel senso di una mancanza di intensità (che è estensione ma anche profondità). La riconosciamo nella delusione, che volutamente montiamo fino a rendercela insopportabile, credendo possa farci scuotere (invece la convertiamo in frustrazione, quindi in sterilità); o la agitiamo sotto forma di inquietudine e diventiamo irrequieti, anche quando esteriormente siamo sereni, è una serenità distesa su un malessere che affiora vago; se vogliamo e quando vogliamo lo sappiamo chiamare per nome: insufficienza, di tensione, di senso, di contatto.

«Oggi c’è più cultura […] nella possibilità di risentire il rumore dei propri passi mentre si cammina e di scambiare due parole con l’altro, che nell’apertura di un nuovo museo. […] se prima non avrà preso forma la domanda, […] senza la scintilla che spinge ad andarci per cercare quello da cui è nato il desiderio, non c’è museo che tenga.»

Ci appartiene la parola desiderio, che inseguiamo con un’urgenza sempre più dissimulata ma più dolorosa, perché senza non riusciamo ad adattarci a vivere. E la cultura, quando non risponde più a una domanda vera, smette di essere importante, da urgenza di espressione e comunicazione diventa riempitivo. Rimbaud smette di scrivere poesia, colpisce l’irrevocabilità di quella scelta, eppure aveva poco più di vent’anni. E quell’andare a piedi, camminare per spostarsi e raggiungere un altro posto (e agganciare se stesso… chissà… forse per incontrare qualcuno?… o dare a qualcuno il modo di incontrarlo?… “possibilità di risentire il rumore dei propri passi mentre si cammina e di scambiare due parole con l’altro”, penso ai due di Emmaus).

Che Ministro della Cultura ha avuto la Korea! Poeta, regista… Ha dichiarato, «La cultura si mangia. E certe volte le rose sono più saporite e più necessarie del pane». Difficile crederlo in un momento in cui le parole sono sempre meno significanti, insincere, perché non sanno dire e comunicare. Eppure nella nostra tradizione (indipendentemente dalla fede o meno) Dio è verbo, parola, e parla eccome al suo popolo (che probabilmente in più di un’occasione avrebbe preferito avesse taciuto… tuttavia il Suo silenzio lo sfida continuamente… e Pietro crede di averlo vinto, «Tu solo hai parole di vita eterna»… ecco il cibo per lui, anziché pane!). E di pane ci si può strozzare, come è vero oggi per tanti che “nei paesi che stanno bene” (dicono, e come dargli torto?… negarlo è offendere chi di pane non ne ha o non ne ha abbastanza) ne hanno d’avanzo, al punto che lo rifiutano, perché hanno capito che la loro fame è di un altro tipo, o lo vomitano, perché il senso di sazietà è stato sedato in modo da eccedere il limite, così da contravvenire a quella misura di medietà in cui si restringe il quotidiano di molti. E le rose? Quanti rinuncerebbero a un pasto per sentirne almeno il profumo, a più di uno se si potessero mangiare i petali. Mangiamo il pane per vivere, ma alle rose chiediamo di essere salvati, come dice il principe Myskin.

Angela Falotico

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