“Il cielo non sanguina, dovrebbe”. Intervista a Lorenza Ghinelli

La colpaÈ la storia sconvolgente di tre giovani ragazzi, Greta, Estefan e Martino, che si trovano a dover affrontare situazioni difficili non adatte alla loro età e vengono lasciati in pasto al mondo crudele che li circonda. Estefan, 19 anni, si porta addosso un buco nero, un buco incolmabile, pieno di sensi di colpa e rancori che la sua mente non riesce e non riuscirà ad assorbire, finché non incontrerà una bambina, Greta, che con la sua semplicità riuscirà a riportare un po’ di colore nel mondo grigio e senza più amore che è dentro il suo cuore.
Anche Martino conserva un segreto spaventoso, che nessuno deve sapere.
Volersi bene è difficile per dei ragazzi che non vengono amati, ma Estefan e Martino, migliori amici, ci riescono, perché li lega una catena forte, ispida e dura come la loro vita.
“La colpa” di Lorenza Ghinelli è un libro che divora lentamente l’animo del lettore, portandolo a soffrire insieme ai personaggi, ed insieme a loro sfidare il destino e i pericoli cui si trovano davanti.
Affronta problemi di vita scomodi, in un mondo difficile, usando un linguaggio conciso, diretto, che è in grado di raggiungere in modo immediato i cuori dei lettori.
Cosa l’ha spinta a scrivere una storia così drammatica?
Credo che le storie non si scelgano, ci abitano dentro, ci si depositano sul fondo e piantano radici. Ognuno serba in se stesso una sua terra. Le storie, proprio come semi, germogliano diversamente in ognuno di noi, sono figlie delle nostre uniche e irripetibili visioni del mondo. Ognuno di noi è unico anche se i media fanno di tutto per farcelo scordare. Io ho solo ascoltato la mia voce e ho usato gli strumenti che ho acquisito in questi anni per riversarla al meglio sulle pagine. Spero di esserci riuscita.
È evidente il fatto che sia stato doloroso immedesimarsi nelle vite di questi tre ragazzi per la stesura del romanzo. È riuscita a dominare sul dolore e a prenderne le distanze o l'”Angoscia” in qualche modo le ha fatto da giuda nella scrittura?
Una delle cose che trovo più difficili è canalizzare la violenza in forme costruttive, trasformare la rabbia evitando che si ritorca contro me stessa e chi amo. In questo senso posso affermare che scrivere è per me una disciplina, l’unica che accetto davvero. Cedere all’angoscia significherebbe perdere lucidità, è come se un fotoreporter di guerra si mettesse a battagliare, perderebbe la sua capacità di narrare, allo stesso modo un fotoreporter deve sospendere il giudizio, così anche lo scrittore. Quando scrivo non giudico, assorbo e traduco. Ed è una palestra splendida anche per smettere di giudicare durante il resto del giorno, tutti i giorni. Noi abbiamo bisogno di capire, non di sputare sentenze. abbiamo bisogno di imparare a stare sulla cornice, di contattare il dolore senza caderci sempre dentro di testa. Per raccontare davvero l’angoscia occorre averla almeno in parte elaborata. Quando vivevo stati d’animo molto complessi e dolorosi era impossibile per me scriverne, persino parlarne. Oggi, quando racconto ciò che un tempo era quasi capace di togliermi la voglia di vivere, non faccio altro che contattare quella parte di me ferita e dolorante, ma senza dimenticarmi che in questi anni ho compiuto tanti passi che mi permettono di non restare più impantanata nel passato.
Secondo lei l’indifferenza da parte dei genitori pesa sul bambino quanto la violenza fisica effettiva?
Certo, e a volte persino di più perché è invisibile. È a non essere visti ci si sente ancora più soli e incompresi. A volte non sappiamo nemmeno noi in quale modo veniamo feriti, sappiamo solo che sanguiniamo. Per questo è fondamentale imparare a parlare con gli altri del nostro disagio. Se non veniamo capiti non abbiamo compiuto un errore a parlarne, ma spesso abbiamo solo sbagliato persona. L’importante è cercare sempre un dialogo. I segreti, come le parole non dette, ci marciscono dentro.
Ha conosciuto da vicino persone violate nell’infanzia o è stata ispirata da un fatto di cronaca o da un film che l’ha colpita particolarmente?
Ne ho conosciute, e ad alcune di queste sono stata fortemente legata. Credo che sia importante sapere chi siamo, al di là di quello che alcune persone hanno fatto o non fatto di noi. Ognuno di noi è prima di tutto se stesso, la sfida consiste nello scoprirlo nonostante gli urti della vita.
La mancanza e l’insensibilità dei genitori sono legate alla sua visione della società attuale?
La nostra società ci educa all’insensibilità, siamo abituati a considerare normali cose aberranti, è quindi facile, crescendo, diventare sassi. I genitori sono prima di tutto esseri umani, e come tali sono imperfetti e va bene così. Si migliora soltanto insieme, parlando. E se ciò non avviene questo non vi deve impedire di trovare comunque la vostra strada.
Oggi nelle scuole è prevista la presenza dello psicologo. Secondo lei poteva essere utile ai tre protagonisti una figura come questa? Oppure avrebbero continuato a mantenere i loro segreti?
Martino ed Estefan erano soverchiati dal senso di colpa e questo ha impedito loro di chiedere aiuto. Si sono macerati nel dolore per troppi anni, quasi dieci. Mentre Greta era troppo piccola per pensare da sola di rivolgersi a un terapeuta.
Sono felice che la scuola metta a disposizione dei ragazzi questa figura professionale, è senz’altro un’opportunità per uscire dal silenzio. Andare dallo psicologo o dalla psicologa non dev’essere una vergogna. Le persone più problematiche che ho incontrato non ci sono mai andate. Chi vuole stare meglio non deve avere paura di chiedere aiuto. Non ci si salva da soli.
Ritiene che scrivere sia un mezzo per parlare di sé o per suggerire qualcosa agli altri?
È un mezzo per comunicare, lo scrittore non deve avere mai la presunzione di insegnare nulla. Semplicemente racconta una storia in cui c’è tanto di sé, ma quella storia diviene un terreno aperto di confronto che permette di aprire mondi, domande e prospettive che appartengono tutti. La storia cessa di essere solo dello scrittore, diviene materia pulsante e condivisa.
Come è nata la sua passione per la letteratura? A quanti anni ha iniziato a scrivere?
Avevo tredici anni e tantissime paure che mi rendevano quasi muta. Scrivere ha significato liberare la mia voce. Ho letto sempre tantissimo, leggere mi ha insegnato a pensare meglio e a esprimermi. Scrivere è stato il passo successivo.
Io non lo so cosa farete un domani, ma non pensateci troppo, la vita è imprevedibile. Siate curiosi, siate vitali, solo questo conta. È onorate i vostri sogni, sempre. Questo è il mio augurio più grande.

Eva Bressan, Erika Di Forti, Irene Lavecchia, Anahi Pagura, Micol Scaini, Lisa Steffan, 3Eu

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