“Una donna di plastica” di Caterina Moro
Chiusi gli occhi e sognai
sognai una donna plasmata dal tempo
sognai una donna dal sorriso perenne
sognai una donna con gli occhi chiusi
occhi serrati cuciti nascosti celati negati
allo sguardo sottratti:
una tenda sospesa sopra l’anima
per non mostrarne l’assenza
pensai che era una donna di plastica
un involucro vuoto che sopravvive
perché la sua anima non s’incrina
non si spezza non si spacca
una donna di plastica a volte si taglia e quando si taglia
non sanguina non strepita non
muore ma cambia
perché chiunque la piega e la plasma
pensai che se fosse una donna di carne
si farebbe più male
perché la carne non si trasforma
ma si lacera si morde si graffia
pensai che se fosse una donna di carne
vivrebbe somigliando a una donna di plastica
spasimando una tregua alla lotta con la sua anima
che poi è la sola cosa che la fa vivere
pensai che una donna di plastica è
meravigliosamente incredibilmente
tremendamente orrendamente
diversa da una donna di carne
una donna di plastica continua a sorridere
anche quando si scioglie
una donna di carne urla il silenzio indicibile
e ha paura e ha coraggio di essere
una donna di carne ha un’anima che le si strappa di dosso
e vive per tenerla con sé
una donna di plastica non sa cos’è un’anima
e continua a sorridere
e continua a sorridere
e continua sorridere
ma non ha un motivo per farlo.
La poesia, giocata sul confronto tra (donna di) plastica e (donna di) carne, mette a nudo con violenza il vero fondamento dell’esistenza, l’anima, che fatichiamo scindere dalle cose, dai pensieri, dalle azioni, e così sola, esposta, ci sembra quasi infantile. Ci è facile parlare di anima di un quadro, di una poesia, anima del mondo, anima felice, anima pia, anima giusta, …ma così privata di ogni pudore l’anima passa sotto i ferri chirurgici della poesia, e lotta per rimanere attaccata alla carne. La carne assume il valore non solo di mero contenitore dell’anima, ma di indispensabile, imprescindibile protesi dell’essenza dell’individuo, che pure non si puo’ liberare del tutto. Si lacera, si morde, si graffia per svincolarsi dalla presa della volontà, ma in fondo al tempo stesso ne ha bisogno, lotta per tenerla con sé.
Così l’autrice decide di parlare dell’anima per negazione, evidenziando come la vil materia (la plastica) non può vivere da sola perché non sa di esistere, non si può nemmeno determinare, è semplicemente vittima del tempo che la plasma. L’involucro vuoto che sopravvive è anche però, al tempo stesso, il vuoto dell’apparenza, il peso che l’anima di ognuno di noi si porta addosso, e di cui vorrebbe sempre riuscire a liberarsi.
Le parole escono a grumi in un gioco di tensione e risoluzione, di indignazione e rassegnazione, di denuncia e di accettazione. Sembra quasi che la poesia, nel complesso, sfrutti la forza bruta delle parole per cercare di “urlare il silenzio indicibile”, capace di impressionare e suggestionare il lettore.
In una società caratterizzata dal valore dell’apparenza, Caterina rimanda alla necessità della lotta silenziosa che ci determina, che solo nella riflessione sul perché più volte formulato all’interno del testo (che ovviamente non ha mai una risposta) si esplicita, permettendoci forse di trovare un motivo alla nostra esistenza, o quanto meno una piccola ma pur sempre confortante coscienza di sé, perché solo chi sa di vivere, conclude con una punta di amarezza l’autrice, davvero vive.
Andrea Cozzarini