Cosa si vede dalle finestre della biblioteca?

Klassivaenlane_02Pochi giorni fa ho visto Class enemy, uno di quei film che non finiscono con i titoli di coda, ma  anche dopo continuano ad assembrare i pensieri. In una scuola slovena arriva il professore di tedesco Zupan che supplisce l’insegnante di ruolo ormai prossima al parto. I suoi modi freddi e austeri sono distanti dal clima amichevole cui è abituata la classe. Quando una studentessa, Sabina, si suicida apparentemente senza motivo, si innescano dinamiche devastanti nei compagni sconvolti, che trovano nel docente e nelle sue richieste esigenti il capro espiatorio di quanto accaduto. Il fronte, dapprima compatto nella rivolta, inizia a creparsi mescolando ragioni e sospetti.

La storia si basa sulla tensione dialettica tra la classe, che incarna l’esigenza di un rinnovamento educativo, e il professor Zupan, in cui invece si identifica la vecchia scuola, più formativa e meno empatica.
Gli studenti sono in preda a un’emotività magmatica che non riesce a scalfire la radice del disagio; appaiono smarriti, aggirano la responsabilità, vittime inconsapevoli di pressioni e aspettative, incapaci di gestire la tragedia, in cerca di una bussola.
Il professor Zupan incarna un sistema scolastico che persino il suo Dirigente, abituato a optare per la ragionevole politica del compromesso, sente inadeguato ai tempi: una volta loro avevano paura di noi, ora noi di loro – gli dice – Benvenuto nel XXI secolo.
Il suicidio di Sabina non è il tema del film, anche se bisogna rilevare che oggi la terza causa di morte tra i giovani è proprio il suicidio. Il suicidio di Sabina è l’effetto di un problema. Per chi decide di togliersi la vita la possibilità di immaginare un futuro è sovrastata dall’idea che esso possa continuare ad essere la proiezione della tremenda disperazione del presente. Che piaccia o no, chi vive vicino a un suicida non può fare nulla per fermarlo. La tragedia è che, come ricorda Thomas Mann, la morte di un uomo è meno affar suo di quelli che gli sopravvivono: a noi rimane la colpa, la rabbia, lo squarcio di un dolore profondo senza ritorno.
Al di là delle circostanze contingenti (Sabina aveva forse scoperto solo recentemente di essere stata adottata?), il problema è la mancanza di senso di una vita troppo miope per abitare l’angoscia delle domande di fondo. Al termine di un dialogo schietto e terribile, Zupan inchioda Sabina dicendo quando è il momento di pensare a cosa vuoi essere? Perché quando si è spenta la capacità di attendere il futuro, non resta che arredare il tunnel di un presente fatto di giorni identici. Anche per Giovanni Giudici solo chi non tenta / di salvarsi non è perduto.
D’altra parte è vero che l’erosione del futuro e la vetrinizzazione di sé sono alcuni dei tratti della modernità flessibile e liquida in cui siamo calati (e noi, per fortuna, abbiamo in biblioteca i libri di Sennett, Sloterdijk, Augé, Bauman, che vale la pena leggere per capirci qualcosa). La società trasparente non tollera la sofferenza e il dolore, li anestetizza e ci rende incapaci di costruire una narrazione coerente delle nostre vite.
Quello che voglio veramente dire è che alla base del fallimento didattico del professor Zupan vi è il tentativo da parte sua di mostrare ai suoi studenti un altro modo di affrontare la realtà, apparentemente duro, ma che nasconde una potente verità. Agli alunni che gli chiedono (in sloveno) perché mai voglia fare lezione subito dopo la morte di Sabina, lui risponde (in tedesco):”E quando sarà il momento? Domani? Dopodomani? Tra una settimana?” Quando è il momento di ricominciare? Quando accettiamo che non possiamo cambiare ciò che è accaduto, ma possiamo cambiare noi stessi. Se restiamo a guardare l’impeto del fiume che scorre, non ci sposteremo di un passo, mentre solo se vogliamo raggiungere l’altra riva, ci arriveremo. Caro orsacchiotto, non vorrei citare Recalcati, perché da quando gira col giubbino in pelle tutti lo snobbano, ma io penso che il desiderio sia la ragione su cui fondare l’intera esistenza e sia proprio la sua mancanza a nutrire i ragazzi di insoddisfazione e assuefazione all’apatia. Come Sartre, il professor Zupan invece ci sprona a fare, e facendo farsi.
L’errore di Zupan è “parlare tedesco”, sperando che i ragazzi possano arrivare da soli alla nobile altezza dei suoi paesaggi. Se i ragazzi avessero la forza di salire, vedrebbero l’eroismo delle rinuncia, il coraggio di accettare (il pati che Orazio suggerisce a Leuconoe) che la vita va avanti, anche se talvolta sa essere spietata e rigida come una gelida mattina d’inverno. Invece rifiutano quella fatica perché non sanno credere alla bellezza racchiusa nel guscio ruvido, ma allo stesso tempo si aspettano l’inclinarsi degli adulti verso di loro non tanto per ascoltarli e difenderli dalla vulnerabilità della condizione umana, quanto per aiutarli a costruire la mappa di sé scoprendo il proprio centro di gravità.
Non posso dire dunque ai miei studenti che non soffriranno e non cadranno, ma posso dire loro che, dal momento che siamo gettati qui, siamo convocati per studiare il futuro, frugando ciascuno la ragione per imprimere la direzione ai suoi giorni.
Nelle mattine lucide d’inverno, dalle finestre della nostra biblioteca, oltre i condomini e gli edifici del Centro Studi, le montagne lontane si intravedono nitide.

Roberto Cescon 

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