fine infanzia feliceGuido lavora come editor in un piccola casa editrice locale. Dopo aver infilato alcuni libri di successo, ha ottenuto una certa notorietà. Un giorno arriva in ufficio una busta diversa dalle altre. Il mittente è Sergio Casagrande, un amico d’infanzia che da tempo ha dimenticato. Il manoscritto inizia con alcuni frammenti dell’infanzia di Sergio, che costringono Guido ad immergersi nel passato lontano, che sa di campi, fieno, fatica, trattori. L’editor prova una sensazione strana, perché si accorge di essere diventato un personaggio delle pagine di quel romanzo. A questo punto viene narrata una storia di infedeltà coniugale, molto intensa e funzionale a stanare il carattere disincantato di Guido. Infine l’azione si svolge nel tempo presente, dove Sergio trascorre intere settimane a pedinare Guido fino ad incontrarlo prima nella finzione, poi nel duello finale.
È una storia molto coinvolgente quella narrata nell’ultimo libro di Villalta, perché riesce ad unire ad una sapiente attenzione all’intreccio forti momenti di verità sia per l’avvicinamento emotivo tra i due personaggi sia per la riflessione sul valore del raccontare storie. Perché in gioco c’è il tema del rapporto tra la vita e le storie che si raccontano, di quanto questi due estremi siano distanti ma in realtà possano incontrarsi. È il manoscritto a costituire l’inizio del viaggio, è attraverso le sue pagine che le persone cambiano, è nelle sue pagine che ciascuno può diventare narratore, lettore e personaggio, è con le sue pagine che si può ridare linearità all’esistenza, che invece procede per strappi.
Mi ha colpito innanzitutto la scelta del metaromanzo, che è una forma difficile, ma che tu hai saputo ben articolare adattando sempre la struttura ai personaggi che la compongono. Inoltre l’espediente metanarrativo permette a Guido di commentare il romanzo che lui sta leggendo, ovvero quello che tu hai scritto, così che tu dai al tuo lettore un primo punto di osservazione della storia. Cosa ti ha spinto verso questa soluzione narrativa?
Certo, il “commento” di Guido è un modo per costringere il lettore a prendere qualche passo di distanza da quello che sta leggendo, ma – così spero – anche da quello che sta pensando l’editor (che è spinto da forti motivazioni personali, estranee al lettore). Tutto compreso, anche quello che succede dopo, che viene detto e raccontato, aveva lo scopo di raccontare, al di là delle storie che sentivo necessario raccontare, il nostro appartenere alle narrazioni in modo sempre parziale, eppure senza che vi sia un vero “fuori”. Tra una storia di finzione a una storia “vera” c’è solo la differenza del “patto narrativo” tra chi narra e chi legge/ascolta. Questo (ma qui le cose si complicano un po’) riguarda anche noi stessi e la nostra vicenda personale: noi siamo la storia che ci raccontiamo – e ce la raccontiamo diversa, in modo differente, nel tempo e attraverso gli eventi principali della nostra vita.
Quanto ha giocato in questa scelta il desiderio di riflettere sul rapporto tra scrittura e realtà, che già è chiaro nella citazione in esergo di Mark Strand? Il romanzo è la metafora della vita? Mi viene in mente una frase che dice la moglie di Guido: la vita è già piena di esperienze virtuali che se qualcuno si mette a scrivere sul serio una storia di finzione, scopre di non sapere più con certezza qual è il confine.
La contemporaneità della comunicazione globale elettronica sta facendo emergere un qualche cosa che costringe a travalicare la bella espressione “il romanzo è metafora della vita”, in favore di un’altra che invita a considerare la “sostanza narrativa dell’esistenza”. Sono molti gli esempi che si potrebbero fare, e numerosi sono gli studi in questa direzione, che provengono anche dalla filosofia e dalle neuroscienze. Diciamo, con altre belle frasi, che la vita deve sempre essere inventata e la realtà deve essere sempre conquistata.
L’infanzia di Guido e Sergio è calata nel contesto friulano del dopoguerra e degli anni del cambiamento tra la società contadina e quella industriale. Come già si percepiva in Un dolore riconoscente, sei molto a tuo agio nel narrare quel contesto e riesci a far respirare i profumi di quel paesaggio o i non detti di quei volti…
E’ la forza della cosiddetta “narrazione di formazione”, che esercita anche nelle nostre vite un impatto non dimenticabile. Certo il contesto è importante, perché per me è quello della mia infanzia e della mia adolescenza, per il quale mi è facile usare diverse forme di “regressione” narrativa, recuperando emozioni e sensazioni che, oggi, rispetto alla mia vita presente, forse passerebbero in secondo piano rispetto ad altre osservazioni e riflessioni. E poi c’è la poesia, che in questi anni mi ha insegnato molto, soprattutto come togliere, come scrivere meno, come non commentare.
A questo punto non puoi non spiegarci la scelta del titolo, che forse ha a che fare con il significato dei cambiamenti nella nostra vita e con quella paura che li accompagna.
Il titolo viene da una frase di Guido, che è collocata al centro della sua spiegazione: dalla dimensione dell’infanzia si è costretti ad uscire, e quindi, anche e forse di più, uscire da un’infanzia felice significa attraversare un limite definitivo. E’ una diversa dimensione, un modo differente di comprendere (e di subire) gli altri e il mondo, così come le condizioni oggettive della nostra vita quotidiana. Ma, certo, la nostra vita cambia sempre, anche quando meno ce ne accorgiamo… e poi all’improvviso ci chiediamo se è cambiato il mondo, se siamo cambiati noi, se sono cambiati gli altri… Perché, anche questo è dannatamente vero, abbiamo bisogno più di continuità che di cambiamenti.
Ad un certo punto il gioco narrativo di Sergio si fa quasi ossessivo perché lui cerca a tutti i costi l’incontro con Guido. A questo proposito a me viene in mente una frase del libro: ci sono errori che si commettono, c’è un peso da portare. Sorridi, se non c’è rimedio, sorridi e cammina. Legare una corda al collo di qualcun altro, per costringerlo a portare quel peso, vuol dire che prima o poi ci si strozza in due. Tu che ne pensi?
Pensavo, quando l’ho scritta, a quanto sia frequente, nelle “narrazioni di sé” oggi più frequenti scaricare sugli altri la colpa di qualcosa che va storto. Ciò in parte è dovuto al fatto che, tolti o depotenziati i grandi riferimenti metafisici, siamo costretti a portare sulle nostre spalle tutta la nostra biografia, che nel passato veniva demandata alle condizioni della nascita, alle divinità e ad altri importanti fattori. Oggi ti viene addosso, come responsabilità (e spesso quindi come colpa) anche ciò di cui non hai assolutamente responsabilità e colpa, e per questo hai sempre attivo un meccanismo di “scarico” su qualcun altro. Qui suggerisco un modo poco eroico, normale e umano di prendere le misure dei nostri errori e di farcene carico, senza inscenare tragedie. Non è facile, lo so, tanto che per Sergio, questa ipotesi diventa quasi paralizzante.
Sergio ha il merito di mostrare il vero volto di Guido, che fuori può apparire fastidioso, scostante, ma che è capace di guardare alla vita con lucidità e consapevolezza della sospensione in cui ci troviamo per cercare di godere delle circostanze che accadono.
La moltiplicazione dei punti di vista, che la narrativa permette, ci svela anche quanto quotidianamente pratichiamo: vediamo gli altri ma non vediamo noi stessi; anzi, a volte siamo pronti a notare negli altri proprio i nostri maggiori difetti. In ogni caso, solo lo sguardo di qualcun altro ci toglie dal narcisismo assoluto per aiutarci a entrare in dialogo con gli altri (e anche con noi stessi). Se ci sono delle persone scostanti, i cosiddetti “antipatici”, che ci piacciono, non è soltanto perché sono la copia della copia hollywodiana dell’eroe romantico o della donna fatale, ma perché riconosciamo in loro qualcosa di buono.
La pubblicazione di un libro è un viaggio faticoso. Se ti volti indietro, quale punto di questo viaggio ti è piaciuto di più?
Non ho dubbi: scriverlo.
A chi consigli il tuo libro?
A tutti, naturalmente. Ma soprattutto a chi ama leggere con attenzione.

Intervista a cura di Roberto Cescon

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